In realtà, se noi guardiamo alla storia, il declino delle concezioni universalistiche non è specifico della nostra epoca. La riaffermazione delle identità nazionali, etniche e religiose è un fenomeno ricorrente, il quale si verifica ogni volta che qualche impero sovranazionale, più o meno tirannico, crolla. Nè appare lecito considerare la risorgenza delle identità come segnale di un abbandono del cosmopolitismo. Fenomeni di questo tipo sono già avvenuti, a ritmo ciclico, nel passato, e non dovrebbero indurci a essere pessimisti circa un rinnovato successo in futuro di ideali che puntino a unire piuttosto che a dividere, a esaltare i fattori che ci accomunano in quanto esseri umani piuttosto che a sottolineare gli elementi che ci separano gli uni dagli altri.
La perdita di fiducia nel cosmopolitismo, l’attuale declino delle idee universalistiche, non sono fenomeni la cui origine possa farsi risalire a circoli intellettuali o addirittura accademici in senso stretto. Essi riflettono, piuttosto, la percezione diffusa che il futuro non possa essere migliore. Non è così frequente, oggi, trovare qualcuno che creda veramente nella possibilità di dar vita a una società più giusta. Parlo della speranza che cessino le sperequazioni tra le opportunità di cui possono fruire gli individui delle varie nazioni, e anche all’interno di una sola nazione.
Tuttavia gli intellettuali giocano un ruolo rilevante nel mutamento dei paradigmi culturali. Certamente sono i cambiamenti storici a innescare lo spostamento di interessi degli intellettuali, e il cosmopolitismo risulta forte quando le condizioni storiche ne consentono diffusione ed espansione. Ma gli intellettuali, e in particolare i filosofi, non registrano soltanto ciò che accade intorno a loro, essendo influenzati come tutti dal clima di speranza o di pessimismo che respirano. Sono invece costruttori di teorie, che spesso anticipano il corso degli eventi.
E’ opportuno notare che quando, per esempio, pensare a una società senza classi sembrava a molti normale, l’interesse per la sopravvivenza delle identità pareva un problema di minore importanza. Non si trattava certo di poco rispetto per le specificità nazionali, etniche e religiose. Si pensava, piuttosto, che la diffusione di una visione del mondo e di una cultura globali avrebbe apportato tanti e tali vantaggi da mettere in secondo piano l’interesse per la sopravvivenza delle identità. Che importa, in fondo, la difesa delle proprie specificità, se l’obiettivo da raggiungere è una società sovranazionale in cui vi sia davvero l’uguaglianza delle opportunità? L’aspirazione universalistica è alla base della speranza che il futuro vada costantemente migliorando.
E’ un fatto che universalismo e cosmopolitismo si sono incarnati in due diverse ideologie. Da un lato la tradizionale teoria marxista della società mondiale senza distinzione di classi o razze, frutto di una rivoluzione seguita dall’abolizione della proprietà privata.
Dall’altro una visione del mondo forse meno elaborata dal punto di vista teorico, ma altrettanto influente. Era opinione diffusa in Occidente dopo il 1945 che la pace appena conseguita, unitamente allo sviluppo scientifico, avrebbe reso possibile una prosperità economica prima inimmaginabile entro la cornice del libero mercato. Il “sogno”, se così lo vogliamo chiamare, era che la prosperità economica avrebbe a sua volta innescato un processo globale di rinnovamento politico, facendo sì che alla fine l’ordinamento liberaldemocratico si estendesse al mondo intero. Senza coercizione, ma in virtù della sola forza di persuasione, generata dal successo pratico. Molti politici firmatari della Carta delle Nazioni Unite avevano chiaramente in mente questo tipo di scenario venato di utopia. Niente rivoluzione violenta, nessuna abolizione della proprietà privata, fiducia nella bontà delle proprie idee.
E anche la scienza si è fatta portatrice di valori simili. Non esiste una fisica, una biologia o una sociologia europea o americana, ma una fisica, una biologia e una sociologia tout court. La scienza, in altri termini, è un potente strumento di superamento delle barriere politiche, linguistiche e razziali. E’ cultura cosmopolita per eccellenza: non a caso, essa ha sempre avuto problemi con i regimi totalitari, di qualunque colore fossero. La scienza è tentativo costante di conoscere oggettivamente il mondo, e ciò nulla ha a che fare con le differenze politiche, etniche o religiose. Einstein, Bohr e altri sperarono nell’avvento di una sorta di “ordine internazionale degli intellettuali” per impedire il cattivo uso dell’energia nucleare e assicurare la pace mondiale.
La scena, ai nostri giorni, è molto cambiata. L’esperimento marxista, volto a trovare un sostituto soddisfacente dell’economia di mercato, è fallito. Tuttavia, l’utopia del libero mercato come panacea di tutti i mali sociali non ha incontrato sorte migliore. Questo perché tra sviluppo economico ed eguaglianza delle opportunità non esiste affatto una connessione meccanica e necessaria. E neppure la scienza si salva, dal momento che ora si insiste sui suoi aspetti negativi.
E’ quindi la perdita di fiducia in tutte le forme di utopia egualitaria a far sì che molti guardino preoccupati al processo di globalizzazione. Si tratta di una preoccupazione dettata da motivi pratici e concreti, piuttosto che da teorizzazioni politico-filosofiche.
In realtà occorre rovesciare lo schema concettuale che finora è stato in prevalenza utilizzato, quello che vede le scelte politiche quali conseguenze di elaborazioni puramente teoriche. Le scelte politiche di grande portata vengono effettuate non in base a teorie filosofiche precise, ma guardando al corso dello sviluppo storico concreto che si dipana davanti ai nostri occhi. Si tratta di una sequenza di eventi che solo a posteriori riusciamo a classificare e a inserire in una cornice precisa. La filosofia politica e i vari tipi di teoria sociale non svolgono, in questo caso, un mero ruolo di sistematizzazione.
In realtà, la filosofia è utile perché fornisce ri-descrizioni dei fenomeni sociali se si sa quali sono gli obiettivi e dove si vuole arrivare. A loro volta, queste ri-descrizioni, formulate inizialmente in un gergo incomprensibile ai profani, possono diventare proprietà di tutti quando vengano tradotte nel linguaggio quotidiano. Solo allora funzionano da apripista per il mutamento sociale.
Oggi viviamo in un periodo che vede un allentamento della speranza e incertezza circa ciò che ci attende. Alcune parole, dunque, sulla globalizzazione. Troviamo traccia di questo termine – o concetto, se si preferisce – sia in ambito marxista che liberaldemocratico. La preoccupazione generale per i rapporti tra ricchi e poveri, negli scritti di Marx, travalica qualsiasi confine nazionale o barriera razziale. In ambito democratico, la questione centrale diventa quella di una maggiore eguaglianza sociale che, allo stesso tempo, non scoraggi lo spirito imprenditoriale.
Il senso vero della globalizzazione è che la situazione economica dei cittadini di uno Stato nazionale sfugge ormai al controllo delle leggi di quel particolare stato. Prima le leggi nazionali regolavano, anche a fini sociali, i movimenti di denaro all’interno dei confini. Ora non è più così. L’assenza di un governo mondiale comporta che gli interessi di tutti non possono essere tutelati. E’ interessante, allora, chiedersi se degli intellettuali portatori di una “cultura globale” abbiano un ruolo, e se sì quale, nel combattere una simile situazione.
Il ruolo dell’intellettuale è di grande portata. L’intellettuale è – come prima dicevo – un costruttore di teorie, anche se non dovrebbe mai dimenticare le condizioni concrete in cui opera. Deve attirare l’attenzione sulla necessità di una politica globale, in grado di contrastare i privilegi delle oligarchie. Il problema, insomma, non è quello di combattere la società globale, ma di dar vita a una società globale giusta. Il termine “globalizzazione” è stato negli ultimi anni caricato di significati negativi, è diventato una sorta di feticcio che riassume in sé i mali del mondo.
Tutto questo è sintomo di grande confusione. Non si sottolineano mai a sufficienza gli aspetti positivi di un processo di globalizzazione correttamente inteso. Non necessariamente globalizzare significa omogeneizzare a forza. Non necessariamente globalizzare equivale a eliminare differenze ed identità specifiche. Al contrario. Può voler dire, invece, dar vita a una società mondiale in cui il rispetto di differenze ed identità diventi un fatto naturale.
Sono convinto che, pur su scala minore, il processo di unità europea possa rappresentare proprio un esempio di globalizzazione “virtuosa”, anche se tutti sappiamo quali e quanti siano gli ostacoli. Naturalmente i problemi si complicano ancor più quando dal contesto europeo passiamo a quello mondiale. Ma questo non deve indurci ad abbandonare la speranza che, in un futuro di cui ora è impossibile delineare i contorni, il progetto vada avanti su scala planetaria.
Ed è proprio su questo piano che gli intellettuali svolgono un ruolo chiave. Quando si parla, ad esempio, di fondamentalismo religioso, si dimentica spesso che nei Paesi in cui quel tipo di fondamentalismo è forte esistono gruppi di intellettuali che si battono, a rischio della vita, contro ogni tipo di chiusura. Questi intellettuali non capiscono perché le differenze religiose debbano condurre alla prevaricazione degli altri. A essi dobbiamo essere grati: il loro esempio ci ricorda che la speranza sopravvive anche nei contesti meno favorevoli.
Abbiamo veramente bisogno di rinunciare alla preservazione delle identità e delle differenze se ci muoviamo nella direzione di una politica e di una cultura globali? Molti ritengono di sì, e danno per scontato che la globalizzazione comporti l’annullamento di ogni specificità.
Non è così. La protezione delle identità e delle differenze non ha bisogno di un tipo di politica speciale se ci si muove nella direzione di una globalizzazione intesa in senso corretto. In una società globale le identità vengono preservate gelosamente perché arricchiscono il quadro complessivo.
L’equivoco è considerare la globalizzazione come un processo di omogeneizzazione forzata delle differenze. Essa non va intesa in senso negativo, bensì come un progetto pluralistico, come massimizzazione delle opportunità che dia spazio alla variazione, individuale e di gruppo. E’ in altri termini una omogeneizzazione che mira a favorire l’accordo tra gruppi diversi, affinché cooperino tra loro per dar vita a istituzioni comuni che garantiscano il più ampio spazio possibile per il pluralismo.
Ancora una volta, l’Unione europea potrebbe fornire un esempio di organizzazione simile, per quanto ancora in fase di costruzione. In tale contesto, la politica dei gruppi che difendono identità e differenze non si discosta in maniera significativa da quella tradizionale dei gruppi d’interesse. Si tratta di una procedura legittima e del tutto normale nella storia delle democrazie parlamentari.
Accettare la politica del maggior spazio possibile per la variazione diventa più semplice quando si ammette che non vi è alcuna fonte di autorità al di fuori del libero accordo tra gruppi. E il progetto di una cultura globale non deve certamente essere abbandonato. E’ questo, credo, il compito che gli intellettuali responsabili devono prefiggersi nell’immediato futuro.
Featured image, Serge Latouche economista e filosofo francese, fonte Wikipedia.
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