Una conseguenza importante di tale stato di cose è che i vari governi nazionali hanno da tempo iniziato a “ripensare” la natura e il ruolo delle loro università. Mentre in passato gli scambi di studenti e docenti erano in fondo una questione di élite, ai giorni nostri sono diventati un fenomeno di massa. Certo gli addetti ai lavori lo sanno già, ma non passa giorno senza che i mass media attirino l’attenzione del grande pubblico su queste vere e proprie “migrazioni” che coinvolgono gli ambienti accademici.
E non si tratta solo dell’Europa, dove il successo di programmi come l’Erasmus è noto a tutti. In realtà è il mondo intero a essere coinvolto come ben si è visto a Londra, senza eccezione alcuna. Nei vari panels di discussione erano infatti presenti in massa nordamericani e asiatici, latino-americani e australiani, africani e rappresentanti delle repubbliche ex sovietiche dell’Asia Centrale, cinesi ed europei di ogni provenienza. Qual è l’elemento chiave per trasformare queste migrazioni tutto sommato spontanee in un processo “governato”, vale a dire portatore di un senso condiviso? La risposta di per sé è piuttosto chiara, anche se – come sempre – passare dalla teoria alla pratica comporta notevoli difficoltà. Occorre, in altre parole, esaltare i fattori unificanti e contrastare quelli che dividono. Alle università viene richiesto, per così dire, di “cambiare pelle”, di attrezzarsi affinché la loro offerta formativa possa essere fruibile globalmente, e non solo in un ambito strettamente nazionale.
Mi hanno colpito le tesi di un docente africano il quale, parlando del contatto sempre più intenso tra culture e tradizioni diverse, ha suggerito che dovremmo tutti “unlearn and relearn”, il che significa “disimparare e reimparare”. Ciò significa, per studenti e docenti che si recano all’estero per periodi più o meno lunghi, rinunciare a vedere il mondo con gli occhiali della propria tradizione e giudicare la realtà con quelli di una tradizione diversa. Operazione non facile da realizzare, indubbiamente. Ma assai promettente se ci si sforzerà sul serio di portarla a compimento. Si tratta di una strada che potrebbe evitare gli “scontri di civiltà” di cui parlava Samuel Huntington nel suo celebre – e spesso frainteso – libro degli anni ’90. Soltanto l’educazione a una cultura mondiale ha qualche speranza di raggiungere un simile obiettivo, per quanto difficile esso sia. Si noti, inoltre, che percorrendo questo cammino le differenze non vengono eliminate, bensì “comprese” e inserite in un quadro globale, in cui la diversità diventa un fattore di arricchimento e non di scontro.
Le obiezioni sono ovviamente molte. Permane il sospetto che si tratti di uno strumento per riaffermare in modo surrettizio la superiorità della civiltà occidentale sulle altre. Ma, per quanto possa sembrare strano, tale sospetto è stato avanzato più dagli occidentali che dagli esponenti dei Paesi emergenti o in via di sviluppo. Costoro si dimostrano coscienti che una cultura globale costituisce probabilmente l’unica maniera per combattere il fondamentalismo e il nazionalismo.
Non poteva poi mancare la discussione sul problema della lingua. Qual è lo strumento di espressione più globale? Risposta piuttosto scontata: l’inglese. Tuttavia anche lo spagnolo ha un’enorme diffusione, e qualcuno ha colto la palla al balzo per rilevare che si tratta di una lingua ormai maggioritaria in alcune parti degli stessi Stati Uniti. Il problema resta aperto, anche se mi sembra che non sia affatto insuperabile come si vorrebbe far credere.
La conclusione, naturalmente provvisoria, è che i sostenitori di una cultura globale – ma rispettosa delle differenze – non sono dei sognatori. Facendo leva sull’internazionalizzazione del sistema universitario si possono raggiungere risultati impensabili nei secoli passati. Occorre solo il coraggio di andare avanti, di pensare un “noi” transnazionale senza farsi scoraggiare dagli egoismi dei confini.
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