“Gold” di Thomas Arslan – 63esimo Festival Internazionale di Berlino (Concorso)

Creato il 19 febbraio 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Anno: 2013

Durata: 112′

Genere: Western

Nazionalità: Germania

Regia: Thomas Arslan

Canada, sul finire del XIX secolo. Una donna raggiunge un gruppo assortito di immigrati tedeschi intenzionato a inoltrarsi nell’impervio nord, nel Kolondike, battendo una strada che nessuno ha mai esplorato. In pieno periodo Gold Rush, i sette compagni di avventura non hanno niente da perdere se non miseria, fallimenti e amarezze nella ricerca dell’Eldorado che presto si rivelerà un cammino di disperazione e di distruzione. Sei persone tra cui Emily Meyer (Nina Hoss), unica donna del gruppo oltre la cuoca che affianca il marito in questo viaggio verso Dawson City, hanno risposto all’annuncio di un venditore di cialtronerie decidendo di investire i propri risparmi in quest’avventura alla ricerca ‘del balsamo per l’anima’.

Ed ecco che il regista tedesco Thomas Arslan si cimenta in un western d’atmosfera dove al non detto è lasciato ampio spazio, si intuisce tutto con uno sguardo, si comunica solo l’essenziale. Il mistero aleggia sui sette personaggi – un padre di famiglia che vorrebbe poter tirare fuori i suoi cari dallo stato di indigenza in cui vivono, una coppia di anziani cuochi che ha investito nel viaggio ogni centesimo risparmiato, un giornalista in cerca di fortuna, un uomo addetto ai cavalli ricercato da loschi tipi, una donna dal passato poco fortunato, l’uomo-venditore di fumo a capo della spedizione – che rivelano umori e debolezze difficoltà dopo difficoltà.

Se sulla carta questo western tedesco, dove non mancano i cliché del genere probabilmente banalizzati o indeboliti da una cinematografia estranea ad esso, poteva risultare promettente, di fatto risulta quasi un’opera-studio, un esercizio di stile che strizza l’occhio al teatrale capolavoro Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt con Michelle Williams di cui vuole emulare speranze, tensioni e smarrimenti risultando un’infelice e sbiadita copia del lavoro indipendente americano. Il personaggio femminile, l’unico a trionfare, è affidato a una grande interprete – impegnata l’anno scorso in Barbara di Christian Petzold – che da sola deve trainare l’intero film colmando le lacune di una sceneggiatura-collage di ingredienti semplificati: c’è l’uomo sulla veranda che tutto vede e sa ma parla solo dietro compenso, il tradimento del capogruppo che non tarda a svelare il suo animo gretto e meschino, l’arrivo dell’indigeno simbolo di salvezza e allo stesso tempo di corruzione, il mito della frontiera quale tentativo di riscatto da una vita di stenti, il finale aperto in cui è solo uno – il più forte di spirito – a trionfare. Gli altri personaggi, i sei compagni di viaggio mossi dallo stesso desiderio, funzionano da contorno all’eroina, hanno avuto un trattamento veloce e poco approfondito fino a risultare figure piatte, poco credibili del carattere che rappresentano. La fotografia di Patrick Orth, quasi sempre orientata verso riprese diurne, sembra volere dirci qualcosa insistendo su questa scelta, ma di fatto non aggiunge molto alla rovinosa avventura, mentre la musica acida e disperata di Dylan Carlson si intona al dramma richiamando alla mente paesaggi sonori già esplorati.

Francesca Vantaggiato


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