In pochi scommettevano a suo tempo che un personaggio cattivo protagonista di un'intera serie sarebbe riuscito ad entrare in empatia con gli spettatori.
Poi è arrivato Walter White, che continuando a diventare sempre più bad, stagione dopo stagione, ha ribaltato credi e convinzioni.
Stessa cosa succede in Gomorra, dove il caso si fa ancora più emblematico visto che non c'è un, e dico un, personaggio che riesca ad essere giudicato buono, non ce n'è uno che riesca in qualche modo a salvarsi ed espiare le sue colpe.
Nonostante questo, il prodotto funziona alla grande, evitando anche di scadere nell'esaltazione del mafioso e del suo stile di vita da una parte, e di fare del facile moralismo dall'altra.
E qui sta la chiave del successo di una serie che, soprattutto nel contesto televisivo italiano sovraffollato di fiction di scarsa qualità e di scarso gusto, poco avrebbe fatto sperare.
Invece Gomorra non solo supera il difficile esame dello spettatore medio, ma non ha nulla da invidiare a prodotti stranieri sempre più precisi e curati.
Le scelte registiche per raccontare uno spaccato di vita in quel di Secondigliano per raccontare le gesta del clan Savastano, sono non solo efficaci ma anche tecnicamente interessanti, lasciando la narrazione volta per volta ad un personaggio diverso, focalizzandosi sul suo stile, sui suoi lati più nascosti e inevitabilmente sulla sua crescita. Si inizia con lo scagnozzo di fiducia Ciro, si prosegue con il boss Pietro, per passare poi alla moglie Imma, al figlio Gennaro, fino a personaggi minori come Daniele e il fratello Massimo, il contabile milanese o le giovani leve di Genny. In questo modo, lo spazio raccontato da Gomorra si amplia, andando a mostrare tutti gli angoli più bui di una realtà che fa male, fatta di regole non scritte che se non seguite portano alla morte sempre facile, e che di certo non si limita a Napoli ma sfocia al nord e anche all'estero, con Spagna e Honduras.
E se il cinema e le fiction hanno finora messo paura per una recitazione non certo eccelsa da parte dei nostri attori, qui (complice anche un dialetto stretto che rende necessario l'uso dei sottotitoli per chi a Napoli e dintorni non è cresciuto) da Marco D'Amore a Salvatore Esposito, da Maria Pia Calzone a Fortunato Cellino, il rischio non si corre, anzi.
Da aggiungere poi è un'attenzione al livello tecnico che richiama fortemente il cinema, dalla fotografia nitida e sempre attenta a scovare l'angolazione più suggestiva anche solo per mostrare una morte, al montaggio intelligente che anche nel finale regala suspance e adrenalina aiutato da una colonna sonora che spazia dai cantanti neomeolodici, ai rap alle musiche d'atmosfera.
I morti ammazzati non si contano, il sangue versato è tanto, e non mancano momenti involontariamente ironici (il divano del primo episodio e i concerti improvvisati, tanto per) e per quanto l'intento -visto il libro di Saviano a cui ispira- sia quello di denuncia, ad uscirne sono episodi eccelsi, a cui forse manca solo quel cuore a cui una spettatrice come la sottoscritta difficilmente rinuncia, un personaggio a cui aggrapparsi, magari.
Ma queste sono solo considerazioni personali che davanti ad un finale e ad altrettanti 11 episodi di una simile caratura, possono e devono essere messe da parte.