Spagna e Portogallo, divisi dalla loro storia e dalle loro visioni della stessa, si trovano per la prima volta a condividere uno spazio unitario, ma centrifugo e opinabile, all'interno del mondo emerso (e dei sogni sommersi tra un'Atlantide e l'altra).
Le vicende di una terra ondivaga, che ha dato i natali a Cervantes e al suo cavaliere errante, a Machado e a Pessoa, senza troppe preoccupazioni nazionalistiche, vengono filtrate attraverso persone che, ciascuna per suo conto, ritiene di esser legato a un fatto simbolico in grado di provocare un evento così straordinario: un uomo che lancia un sasso troppo in là, nel mare, una donna con un filo azzurro tra le mani, un uomo seguito da uno stormo di uccelli, una donna che traccia un segno indelebile per terra, un uomo che sente la terra tremare. Un cane e il destino uniscono questi personaggi alla loro vita e a questa storia che si ricompone tra zolle in avaria nell'immaginario collettivo tra le onde più violente dell'atlantico.
Tra i romanzi di Saramago che ho letto, La zattera di pietra (1986) mi sembra quello in cui narrativa visionaria e afflato lirico si coniugano con maggiore convinzione e pagine davvero commoventi - aspetto inconsueto nello scrittore di Lisbona - come la richiesta di aiuto al cane: con questo animale, dal nome incerto e mutevole, José Saramago crea un 'tu' mobile, specchio dell'emozionalità dei personaggi, compromessa dall'incertezza. Un 'tu' acquoso e disponibile a lasciarsi attraversare dalla luce senza perdere la sua identità afona. Non l'incantevole Dinka di David Grossman in Qualcuno con cui correre, non quel delicato e sensibile legame tra due adolescenti alla ricerca della loro vita, ma il perpetuo rinnovarsi di un punto interrogativo tra donne e uomini già fatti alle prese con il proprio mistero.
Non mi pare, insomma, che La zattera di pietra soffra di un peculiare difetto di creatività o di valore (non, per lo meno, se lo si confronta con il più modesto L'uomo duplicato o anche con l'epilogo fantapolitico di Cecità che è Saggio sulla lucidità). Eppure, non posso negarlo, mi sono trascinato questa lettura a lungo, quasi mi dovessi portare dietro l'intera penisola iberica, irritandomi spesso per il tono polemico e sentenzioso di uno scrittore che ben capisco come a molti non piaccia.
José Saramago sembra basare i suoi romanzi, oltre che su un'ipotesi allucinata e insieme comprensibile, sull'arte del parlare addosso alle cose, quasi seppellendole di frasi non necessarie, di arguzie della sintassi e di sfide alla suscettibilità del lettore. Bisogna esser predisposti a lasciarsi mettere a soqquadro credo e spiritualità (nel senso più ampio e meno catechistico possibile del termine) da un bisturi indiscreto e piuttosto sadico. Ogni situazione diventa un grimaldello nelle mani di un giocoliere abilissimo e molto umano, ma troppo compiaciuto delle sue acrobazie intellettuali e della sua stessa supponenza, fino a farne gioco letterario.
C'è del genio, ce n'è molto, in questa fantasia cosmica, né mi disturba affatto la sua amarezza (tutt'altro che disperata, come certa pubblicistica sintetizza con troppa facilità le prospettive atee). Ma è un genio che si rifiuta di mettersi in discussione, baloccandosi solo nel gusto di farlo e nella sua elaboratissima retorica. I sentimenti e le passioni, le emozioni, perfino, rappresentate qui con sincerità una maestria meritevole dei suoi riconoscimenti e oltre, meritano ben altra autenticità di quella che si aggrappa a questa zattera di pietra.