“Il soprannaturale? E chi può parlarne con cognizione di causa? Chi può dire, sinceramente, se ci sia un limite fra quello che è e quello che pare? Chi ha ancora acquistato il diritto di distinguere la visione dalla realtà?” (Daniele Oberto Marrama, Il ritratto del morto)
Credo di dover riconoscere infinita stima alla giovane casa editrice Cliquot per avermi permesso di aggiungere un tassello fondamentale alla mia passione per la letteratura cosiddetta “weird” (o fantastica, se preferite). Un tassello che rischiava di andare perduto, un tassello tanto più importante in quanto scovato addirittura entro i confini del nostro paese, dissotterrato e riportato al suo splendore in quel capoluogo campano che tanta attenzione ha sempre riservato alle proprie leggende e alle proprie tradizioni. Daniele Oberto Marrama nacque a Napoli nel 1874 e, come ci riferisce Gianfranco De Turris nella sua ottima prefazione, prestò per anni la sua penna a diverse testate giornalistiche, fra cui Il Mattino e Il Giorno, sulle cui pagine gestiva uno spazio dedicato a recensioni artistiche e letterarie. Fu inoltre redattore capo de La Settimana, rivista letteraria fondata da Matilde Serao alla quale avremo modo di accennare ancora in seguito. Avevate mai sentito nominare Daniele Oberto Marrama? No? Cosa rispondereste se vi dicessi che alcuni dei suoi racconti non hanno nulla da invidiare a quelli dei grandi maestri del fantastico?
Daniele Oberto Marrama non è stato in realtà uno specialista di genere (come può essere stato un Edgard Allan Poe) ed è questo probabilmente il motivo per cui non si è mai sentito granché parlare di lui. Tra le sue opere, Gianfranco De Turris ci ricorda la raccolta di versi in dialetto napoletano Sunettielle ’e Storia Sacra (1906), il pamphlet Spade e spine: considerazioni sul problema militare (1908), il racconto Bianca Luna e Piuma Nera (1909), la raccolta Il re di Gerusalemme: Novelle gaie (1909) e il qui presente Il ritratto del morto: racconti bizzarri (1907): unica concessione di Marrama alla letteratura fantastica, è un’antologia composta da soli otto, brevissimi, racconti, che «in parte attingono dalla tradizione delle storie di fantasmi di Dickens e M.R. James, ma che spesso - scrive De Turris - deviano verso inediti e fantasiosi sentieri e il cui motore più forte è l’italianità delle ambientazioni e la prosa energica e del giornalista napoletano che li ha scritti». Se dubitate che sia possibile ambientare storie fantastiche, zeppe di fantasmi, tenebrosi vampiri e spaventosi licantropi, nelle assolate coste campane anziché in nebbiosi castelli scozzesi, pensate che, ben 150 anni prima di Marrama, lo scrittore inglese Horace Walpole aveva scelto il nostro paese per mettere in scena le vicende descritte in uno dei più celebri romanzi gotici, Il castello di Otranto (recensito qui). Daniele Oberto Marrama decide di rimanere in Italia, affidando a personaggi italianissimi, e luoghi italianissimi, il compito di dare vita alle sue storie. Solo talvolta Marrama cede al fascino “esotico” di paesi i cui echi riempiono i giornali, e così nei suoi racconti ritroviamo anche lontani richiami alla Francia di Maria Antonietta e alla Chicago del grande incendio del 1871, avvenimento che, quasi certamente, fu d’ispirazione al racconto L’uomo dai capelli tinti.
Una raccolta di otto racconti weird, dicevamo, pubblicati per la prima volta sulle pagine della Domenica del Corriere agli inizi del Novecento, successivamente raccolti in un unico volume e impreziositi da una prefazione della già citata Matilde Serao la quale, affascinata dallo stile di Marrama, a caldo, subito dopo la lettura, scrisse: “Colpire l’immaginazione non di un semplice e ingenuo lettore, ma quella di uno scrittore, immaginazione fredda, diciamo così, immaginazione esperta, e colpirla fino a un’illusione completa; colpire l’immaginazione di uno scrittore che, in venticinque anni di lavoro d’arte, in trenta volumi di romanzi o novelle, ha scritto, forse, due novelle fantastiche, o, forse, una, e che è stato, quindi, un buon servo della realtà e si vanta di questa sua servitù; colpire l’immaginazione di uno scrittore che ha venerato il fantastico, solo in Edgar Poe: ebbene, significa avere scritto con una intensa verità di scopo, con una impetuosa sincerità di visione, con una indicibile efficacia d’arte.”