Gotico napoletano (Pt.3)

Creato il 24 ottobre 2015 da Theobsidianmirror
In chiusura del post precedente dicevamo che Marrama visse in un’epoca nella quale il fantastico era per lo più popolato da creature terrificanti, magari immateriali, ma con una loro innegabile fisicità. Proprio una di queste creature la ritroviamo nel racconto Una terribile vigilia, ancora una volta ambientato in un ospedale, seppure del tipo “tradizionale”, diversamente da quello del più volte citato dottor Salenti. “Un giorno, ai primi di dicembre, giunse uno sventurato, un pastore che era stato morsicato da un lupo arrabbiato. Il professore Chimenti, che dirigeva l’ospedale, lo presentò alla sua scolaresca e a noi, suoi coadiutori, come un caso importantissimo, tanto più che non c’era speranza di salvarlo, e ci parlò delle teorie di Pasteur, che allora erano recentissime, del virus e del tempo in cui si svolge la sua azione fatale e della orrenda agonia che è serbata a tutti gli infelici che non ricorsero in tempo al soccorso della scienza.” Il lupo mannaro è stato (ed è) uno dei personaggi più sfruttati dalla letteratura, e già all’inizio del secolo scorso fiumi d'inchiostro erano stati versati per narrarne la leggenda (basti pensare a Le Metamorfosi di Ovidio per farsi un'idea di quanto può essere antico l’approccio a quest'argomento). Tuttavia credo di non sbagliarmi dicendo che a Daniele Oberto Marrama andrebbe riconosciuto il gran merito di essere stato il primo a scrivere di lupi mannari nel nostro paese, anticipando di una decina d’anni il ben più celebre Male di luna di Luigi Pirandello
Il protagonista del racconto, assistente del primario, si ritrova a dover trascorrere la notte di Natale nel suddetto ospedale nei giorni in cui sono stati fissati alcuni importanti quanto imprevisti lavori di ristrutturazione. Dovendo pertanto sgombrare alcuni settori, i (pochi) ricoverati vengono trasferiti in altri reparti. "Non è la cella che gli era destinata, la solida cella ben chiusa e ben garantita… Non è la cella che occorre per lui, ora specialmente che la cosa terribile è cominciata…". Inutile dire che anche il nostro protagonista deve rassegnarsi a trascorrere la notte in un alloggio di fortuna, che sfortunatamente per lui si trova a pochi passi dalla stanza, provvisoriamente adattata a cella, in cui è stato isolato l’idrofobo. "Ma nello stesso tempo la candela si spense. Un soffio di vento, come venuto da qualche altra porta spalancata nel corridoio, mi sfiorò il viso e mi fece sussultare. Quale porta poteva essersi aperta, se tutte le celle erano disabitate? Tutte… tranne una". Non racconterò altro, perché Una terribile vigilia è un racconto da leggere per conto proprio, meglio se di sera, nella solitudine della propria stanza. Il terrore è assicurato e, ve lo garantisco, non potrete fare a meno di guardarvi attorno, nel buio, con apprensione. Un terrore adrenalinico che non vi lascerà in pace fino all’ultima parola. Controllate il calendario e assicuratevi di non aver scelto una notte di luna piena prima di immergervi nella lettura: magari sono sciocchezze, ma è sempre meglio non rischiare. 
Poteva esserci spazio per il lupo mannaro in questa antologia e nemmeno un angolino per la più celebre creatura horror di tutti i tempi? Certo che no! Ed ecco quindi che troviamo un vampiro ne Il Dottor Nero, forse il racconto più sentimentale (nell'accezione sia positiva che negativa del termine) dell'intera raccolta. D'altra parte era inevitabile, perché la letteratura vampirica si regge su dolorosi contrasti: luce e buio, bene e male, vita e morte… Da una terrazza con vista sulle insenature di Capri da un lato, e sul Monte Tiberio dall’altro, il protagonista rievoca fatti avvenuti diciotto anni prima in un lontano castello, l’antica e grigia rocca di Greencastle nella Contea di Kildare, in Irlanda. L'Autore sta pertanto inserendo, per la verità un po’ forzatamente, un ambiente nostrano in un più classico scenario dell’orrore, ove la presenza di un vampiro è teoricamente più credibile, per non dire giustificata. Il Comandante O’Nell, narratore della vicenda, racconta ai suoi ospiti di quando, sposata Laura Cavalcanti, una giovane italiana, decise di trasferirsi con la giovane nella sua residenza irlandese. “Temevo che la solitudine e la severità del paesaggio, grandioso ma triste, e l’aspetto cupo di Greencastle, tutto cinto di edera fosca, dovessero spaventare la piccola italiana, nata nell’azzurro e nel sole: ma quando, dopo un viaggio di tre o quattro ore in carrozza, attraverso balze scoscese e boschi di abeti e di pini, i dintorni del vecchio castello apparvero, in un grigio crepuscolo di settembre, Laura ne rimase colpita come da un’apparizione fantastica e batté le mani esclamando: «Com’è bello! Com'è solenne! E io dovrò diventare la castellana di questi boschi e di queste torri!»”. L’entusiasmo cedette tuttavia il posto a qualcosa di ben diverso nel momento in cui la giovane posò gli occhi su un ritratto molto particolare, nascosto in una soffitta sotto quintali di polvere: "Era il ritratto di un giovane trentenne; un viso magro, affilato, pallido, incorniciato da una barba nera. Un viso i cui occhi turchini, acuti come due lame, pareva che brillassero. Era vestito tutto di nero, con un berretto nero in testa, alla foggia dei medici del XVII secolo e, particolare bizzarro, stringeva al petto con la bianca mano sottile – una mano cerea, magra, fantastica – un vampiro dalle ali aperte. Era un simbolo? Era una stranezza dell’effigiato, o del pittore? Chi sa!". Marrama fa propria l’immagine del vampiro più tradizionale, quella che viene alla mente pensando al celebre Dracula di Bram Stoker: una figura alta e robusta, vestita in abiti scuri, dalla carnagione pallida e dalle mani sottili. Al più classico mantello, tipico delle prime rappresentazioni cinematografiche del vampiro, Marrama preferisce un berretto in stile fiorentino, aggiungendo quindi un pizzico di italianità al meno “italico” dei suoi racconti. Anche lo svolgimento non si discosta molto dalla tradizione e, senza entrare nei dettagli, possiamo accostarlo in più punti al classico stokeriano. Ad esempio, possiamo sovrapporre la figura di Laura a quella di Lucy Westenra, almeno fino al punto in cui il vampiro non fa irruzione nella sua camera da letto (avvenimento che Marrama ci lascia però soltanto immaginare, sfruttando astutamente le reminiscenze del romanzo del suo più celebre collega). Se il racconto di O’Nell ben presto giunge al suo sinistro e mesto epilogo, Il Dottor Nero ha però un finale quasi aperto, uno spiraglio nel quale noi stessi possiamo cercare un significato diverso da quello più ovvio, o meglio la conclusione che giudichiamo più opportuna. "Ed egli mi riapparve, un giorno: mi riapparve qui, nel tuo castello, in quel ritratto che vedemmo insieme, quel fosco ritratto di uno sconosciuto". La vera novità de Il Dottor Nero è forse possibile coglierla in queste parole. Il berretto di foggia medicea, il cognome di Laura (Cavalcanti), anch’esso di chiara origine fiorentina, ci permette un collegamento tutt’altro che azzardato con gli altri racconti, in particolare con Il medaglione, nel quale, come abbiamo visto, passato e presente si confondono attraverso meccanismi di narrazione decisamente arguti.CONTINUA