GRANADA, LA CAMELOT DELLA CHITARRA
L’arte della costruzione della chitarra si identifica da secoli con la città di Granada, con la sua cultura, le sue tradizioni. Non è dunque possibile scrivere della chitarra granadina al di fuori della cornice storica, culturale e – perché no? – artistica e poetica del mondo che respira attorno alla turrita Alhambra e ai giardini del Generalife, e non è nemmeno possibile scrivere di tutto ciò soltanto con un approccio rigorosamente storico, perché la storia di Granada è intrecciata con il mito.
La mitologia è antica quanto l’uomo, e si è rinnovata in ogni epoca e in ogni cultura. Anche l’Europa della rivoluzione industriale è stata capace di creare miti, e il romanticismo specialmente ne è stato un padre immaginifico e fecondo: l’esotismo – aspetto caratteristico dell’arte romantica – portò alla ricerca di luoghi poetici in cui all’anima degli artisti (scrittori, poeti, pittori, musicisti) fosse dato di ritrovarsi come in nuove patrie ideali. Questi luoghi non furono inventati dal nulla, spesso furono individuati nella realtà, sulla quale i creatori sbrigliarono poi la loro immaginazione. Un topos favorito della mitologia romantica fu Granada: ben poche altre città al mondo – forse soltanto Venezia – videro sorgere intorno a sé una fioritura di immagini e di affabulazioni tanto ricca quanto quella che fece di Granada, in Europa e nel mondo, una sorta di emblema. La città che era stata dei Mori divenne la meta sognata dalle anime oppresse dallo spleen metropolitano che cercavano una via di fuga dall’incipiente alienazione per evadere in visionarie avventure.
Se l’Oriente sembrava incarnare il traguardo lontano di queste aspirazioni poetiche, Granada ne rappresentava il più seducente e accessibile avamposto occidentale: i poeti europei la guardavano affascinati, come avevano fatto i poeti arabi che l’avevano rimpianta dopo la reconquista cattolica. L’addio a Granada, che conclude il libro dei Racconti dell’Alhambra dello scrittore americano Washington Irving (1783-1859), ci trasmette il sentimento dei turisti dell’anima che si recavano a Granada come in un pellegrinaggio:
Verso il tramonto giunsi dove il cammino penetra nelle montagne e qui mi fermai a dare un ultimo sguardo a Granada. Dalla collina su cui mi trovavo si dominava un’imponente veduta della città, della Vega e delle montagne circondanti. Era situata proprio nel punto opposto de “La cuesta de las lagrimas”, nota come “l’ultimo sospiro del Moro”. Potei rendermi conto allora dei sentimenti del povero Boabdil quando disse addio al paradiso che lasciava dietro di sé e osservava, davanti a lui, un duro e sterile cammino che lo portava all’esilio.
Il tramonto del sole, come al solito, spande un triste splendore sulle rossicce torri dell’Alhambra. Potei distinguere vagamente la finestra con balcone della torre di Comares, dove mi ero abbandonato a così tanti sogni piacevoli. I folti boschi e i giardini attorno alla città erano abbondantemente dorati dallo splendore del sole, la porporea nebbia di una sera d’estate si condensava sopra la Vega; ogni cosa era amena, ma allo stesso tempo delicata e triste, al mio sguardo di addio.
«Voglio allontanarmi da questa visione», pensai, «prima del tramonto del sole. Voglio portare con me un ricordo rivestito di tutta la sua bellezza.»
Alla costruzione di un colorito castello mitologico granadino si affaccendarono gli stessi artisti spagnoli, che diedero luogo a quel fenomeno culturale e artistico oggi noto come alhambrismo: per giungere pellegrini a Granada non occorreva essere francesi, inglesi o americani, potevano ardentemente sognare Granada – come soglia di un altro mondo – anche i madrileni o i catalani. Il romanticismo spagnolo trovò infatti proprio nella contemplazione dell’Alhambra il respiro che gli permise di protrarsi fino alla fine del secolo XIX: un palpito granadino animava Francisco Tárrega, sul finire del 1899, nella creazione del suo capolavoro, divenuto universalmente noto come Recuerdos de la Alhambra, che all’origine s’intitolava Improvisación ¡A Granada! Cantiga arabe.
Il mito romantico di Granada non muore con il romanticismo, ed è stupefacente la sua persistenza nel Novecento. Claude Debussy – che dal romanticismo sciolse gli ormeggi fin dalle sue prove giovanili – non ebbe nemmeno bisogno di visitare la città andalusa di persona, gli bastò una cartolina inviatagli da un amico per fargli captare e comprendere l’anima del luogo, ed eccolo forgiare La soirée dans Grenade – uno dei tre brani della suite per pianoforte intitolata Estampes (1903) – come se lui – che aveva varcato il confine spagnolo solo una volta in vita sua, per una fugace visita a San Sebastián – fosse stato l’abituale inquilino di una carmen dell’Albaicín. In questo brano per pianoforte il mito di Granada diventa il ponte tra romanticismo e modernità. E’ un mito al quale, in pieno Novecento, Marguerite Yourcenar annette un valore quasi metafisico. Nel suo saggio intitolato L’Andalucia o le Esperidi, scrive infatti l’autrice di Memorie di Adriano:
L’arte araba di Granada, più tarda, più femminea, si rivolge allo spirito per mezzo dei sensi. Una grazia lineare siffatta annulla qualsiasi coloritura storica: lo sterminio della famiglia degli Abenceragi o la fuga di Boabdil contano ben poco tra questi prismi e queste stelle di stucchi, sotto queste volte che sembrano aver mutuato dalle corolle, dalle grotte, dagli alveoli delle arnie il proprio segreto così profondamente naturale e così distante dall’umano. Questa perfezione quasi vegetale fa a meno dell’unità stilistica, non dipende dall’autenticità del particolare, subisce con stupenda docilità tutte le ingiurie: il Generalife dai rivestimenti consunti, dai padiglioni rifatti, dai boschetti ritoccati dai giardinieri moderni resta ciò che il suo costruttore arabo desiderava che fosse: il paradiso delle meditazioni serene e delle facili gioie.
Fin dalle sue origini romantiche, il mito di Granada si manifesta come fenomeno universale, non come creazione di un campanilismo locale, e nella sua celebrazione non è possibile distinguere il fervore dei granadini originari da quello dei granadini adottivi: il catalano Santiago Rusiñol, che trascorre intere giornate al cavalletto nei giardini del Generalife, non è meno granadino dei pittori nati a Granada, e nel 1922, è il gaditano-madrileno-parigino Manuel de Falla – trasferitosi a Granada dal 1920 su sollecitazione del suo amico granadino Angel Barrios – a farsi balenare in mente l’idea del Concurso y Fiesta del Cante Jondo, nella cui realizzazione si impegnarono i più bei nomi della cultura e dell’arte di Granada, con Federico García Lorca in prima linea. Ben al di là delle allucinazioni esotistiche, Granada prosegue dunque nella sua seduzione dello straniero anche attraverso le secessioni artistiche del travagliato Novecento, e si affaccia sul nuovo millennio con gli stessi poteri mitici delle piramidi e della sfinge di Giza.
Non è pensabile un quadro di Granada – onirico o realistico che sia, immaginato o dipinto – privo della chitarra: nel cuore dell’emblema-Granada palpita l’emblema-chitarra. Manuel de Falla, che considerava il cante jondo un bene da salvaguardare non diversamente dalle mura dell’Alhambra, individua nella chitarra una sorta di medium che collega gli arcaismi più remotamente primitivi con alcuni aspetti della più raffinata ricerca musicale moderna. Egli infatti conclude il suo scritto intitolato El “Cante Jondo” (Canto primitivo andaluz), riferendosi alle successioni armoniche create “spontaneamente” dai chitarristi popolari, con questa fortissima asserzione:
Acordes bárbaros, dirán muchos. Revelación maravillosa de posibilidades sonoras jamás sospechadas, afirmamos nosotros.
La chitarra granadina è levatrice di miracoli musicali: a Granada incomincia infatti la parabola del più grande chitarrista del Novecento, Andrés Segovia. Gli zii che lo hanno adottato quando aveva quattro anni si trasferiscono da Villacarrillo a Granada nel 1903 – Andrés ha dieci anni – e prendono casa nell’Albaicín. Fatto uomo e divenuto celebre, egli scriverà:
En Linares nací fisicamente al mundo; en Granada abrí los ojos a la belleza de la vida y del arte.
Il ragazzo suona spontaneamente falsetas imitando i chitarristi di flamenco, ma la rivelazione della chitarra classica lo attende di lì a poco, per mano di un colto aficionado, Gabriel Ruiz de Almodóvar, che gli suona i Preludios di Tárrega: il fuoco è appiccato, e le fiamme arriveranno fino al cielo. La componente granadina nell’arte di Segovia è un fattore poetico unico e indefinibile: chiunque, in qualunque parte del mondo e in qualsiasi data tra il 1909 (anno dell’esordio del chitarrista al Centro Artístico di Granada) e il 1987 (anno del suo ultimo concerto a Miami e della sua morte), abbia ascoltato un concerto di Segovia, ha intravisto qualche bagliore della luce di Granada.
Il valore emblematico della città andalusa è percepito e riconosciuto da Segovia in un’occasione di portata storica nella sua vita d’artista e di uomo. Quando decide di rientrare in patria, dopo esserne fuggito nel 1936 allo scoppio della guerra civile, e dopo sedici anni di esilio, il grande chitarrista sceglie l’amata Granada come luogo-simbolo del suo ricongiungimento alla terra ispanica: il 27 giugno 1952 egli si presenta al teatro Isabel la Católica con un concerto che, nell’accoglienza del pubblico e della stampa, travalica il confine dell’evento musicale per divenire un evento nella storia della società civile e culturale del paese.
E le chitarre, a Granada, chi le costruisce? Come sono, intus et in cute? Sarebbe assurdo – come dicevo all’inizio – immaginarle come prodotti di un artigianato privo di relazioni con il mondo nel quale esse vengono costruite: esse sono frutto di creazione, e come tali sono imbevute della storia e della tradizione, della quale costituiscono anzi – come dicevo prima – un emblema. Sono riconoscibilissime prima ancora di essere imbracciate (chi sia provveduto di antenne sensibili e di occhio esperto non dura fatica a individuare a vista una chitarra di Granada fra una dozzina di ottime chitarre costruite a Madrid), e non c’è modo più efficace di definirle, se non il più semplice e ovvio: “chitarre di Granada” è una sorta di locuzione – più di un marchio- alla quale non occorre aggiungere altro. Come la loro patria, esse rappresentano, nel mondo della chitarra, un mito e una storia universalmente noti. La descrizione delle caratteristiche che rendono le chitarre granadine uniche non è invece altrettanto semplice: al di là dei dati “materiali”, c’è, in questi strumenti, qualcosa che sfugge al dominio dell’indagine scientifica (e qui ci soccorre l’intuizione della Yourcenar). Converrà dunque rileggerne, umilmente e sommariamente, la storia.
Lo studioso della chitarra e della liuteria andalusa Eusebio Rioja ci guida, nel suo piacevole e utilissimo Inventario de los guitarreros granadinos (1875-1983), attraverso i secoli abbracciati dalle nostre cognizioni di questi artefici. Lo seguiamo episodicamente, estraendo dal suo racconto gli spunti che meglio si addicono al nostro proposito.
A Granada non si parla di guitarreros soltanto sull’onda del mito. Esistono anche i documenti. Il 15 maggio 1528 i Muy Ilustres y Muy Magnificos Señores de Granada emanano le loro Ordenanzas para la buena gobernación de la républica : lo scrupolo con il quale essi si preoccupano di tracciare un profilo professionale dei vigoleros e delle competenze ritenute indispensabili è prova dell’importanza che l’autorità annetteva alla loro arte. Inutile a dirsi, la Confraternita dei Carpentieri, nella quale i vigoleros erano inclusi, invocava la protezione del patrono San Giuseppe, sicuramente il più famoso tra i falegnami (dopo Gesù Cristo, il più famoso tra i figli dei falegnami sarebbe stato Andrés Segovia).
Il Victoria and Albert Museum di Londra custodisce il più antico capolavoro della liuteria chitarristica granadina giunto fino a noi. Risale al 1792, ed è una prova d’autore di regale eloquenza ebanistica. Uscì dalle mani di Rafael Vallejo a Baza (ora provincia di Granada), e fu costruita per un sovrano (Carlo IV). La lavorazione impegnò l’artefice per non meno di tre anni. La descrizione che ne dà Eusebio Rioja nel suo libro merita di essere citata integralmente:
Es un instrumento excepcional. De un trabajo artesano magnífico. Infinidad de incrustaciones ajedrezadas que decoran el mástil, zoque y cabeza por detrás. Un gran sol de filetería que ocupa todo el suelo y que combina la raíz de palosanto en puzle bellísimo. Cabeza y diapasón con marquetería barroca. Tapa abarrotada de incustraciones con motivos vegetales, un águila bicéfala y coronada sobre la boca y el escudo Real entre ésta y el puente al que flanquean dos leones.
E’, questa chitarra, la testimonianza estrema di una concezione barocca in cui lo strumento era in sé stesso – indipendentemente dal suono che poteva produrre – dimostrazione di un fasto e di una gloria tipici della controriforma e di un’arte che tendeva a creare soggezione con la ricchezza del florilegio, esibendo l’ornamento come segno di potere terreno e di tensione verso l’immortalità.
Mezzo secolo più tardi, le preziose ornamentazioni delle chitarre barocche sono ormai un ricordo e, alla sobrietà dei nuovi strumenti, corrispondono una resa sonora e una praticabilità della tastiera del tutto adeguate alla musica di Sor, di Aguado e degli altri maestri che componevano a partire dalla loro immaginazione di virtuosi: il potere è trasmigrato dall’oggetto al suono, l’eloquenza trova ali nella musica, e anche i liutai granadini accolgono i dettami della dea Ragione. Il fattore che Rioja giustamente sottolinea – nelle chitarre granadine della prima metà dell’Ottocento – è precisamente la prontezza con la quale esse si adeguano alle esigenze della nuova virtuosità: mentre s’infoltisce di note il pentagramma delle musiche per chitarra, si semplifica la morfologia dello strumento, ora tutto votato alla vibrazione.
I nomi dei guitarreros granadini sfilano, a cominciare, per l’appunto, dal secolo XIX: Domingo Molina (1787 – ?), Agustín Caro, José Lopez (1801 – ?), Agustín del Valle (1801-?), Francisco Lopez Gascón (1804-?), Antonio Llorente, Antonio Valle (1823-?), Nicolás del Valle (1826-?), Juan Ortega (1827-?).
Un liutaio granadino che gode di un certo spicco tra i suoi colleghi nel secolo XIX è José Pernas. Il motivo della sua notorietà è tuttavia ancora da documentare, poiché a presentarlo come maestro di Antonio Torres Jurado – il più grande liutaio di Spagna – è solo un’asserzione – non suffragata da prove – di Domingo Prat, autore del Diccionario de guitarristas (Buenos Aires, 1934). Peraltro, il fatto che Prat non si riferisca a una fonte non significa che la notizia sia una sua invenzione: verosimilmente, egli riportava una voce non scritta che, giunta al suo orecchio, gli era parsa degna di fede. Non è quindi inverosimile che il pendolo delle residenze di Torres, che oscillò tra Almería e Sevilla, si sia arrestato temporaneamente a Granada, nel periodo dell’apprendistato giovanile, e abbia attinto attinto alla sapienza dell’esperto maestro granadino.
Antonio Torres fu il sommo artefice che raggiunse la perfezione nella forma e nelle dimensioni della chitarra e nell’uso del varetaje applicato alla tavola armonica, al quale impose un assetto strutturale e funzionale tuttora accettato – alla lettera o con qualche variante – da un gran numero di costruttori in tutto il mondo. Non ne fu però – come qualcuno afferma – l’inventore. Infatti, le chitarre granadine della prima metà dell’Ottocento mostrano impianti di varetaje che anticipano la concezione del grande liutaio di Almería. Successivamente, saranno i capolavori di Torres – esibiti alla pubblica ammirazione nei concerti di Julián Arcas, Francisco Tárrega e altri maestri – a diventare un modello, un riferimento ideale per i costruttori di tutta Europa, inclusi i guitarreros granadini.
La figura che maggiormente colpisce, nella seconda metà dell’Ottocento, e che si espone protendendosi sul nuovo secolo, è quella – invero possente – di Benito Ferrer. Egli fu il catalizzatore della tradizione liutaria granadina e, mantenendone la linea, seppe importare la lezione di Antonio Torres: le sue chitarre rappresentarono quindi il punto di equilibrio fra il passato e l’avvenire, e come tali riscossero un vasto successo. L’abbondanza delle commissioni che gli pervenivano nel suo laboratorio di calle Santiago gli permise di mantenere i fratelli e i nipoti, ma non di prosperare: fu, la sua, una sorta di vocazione sacrificale, che lo spinse al punto di astenersi dalle nozze per non togliere sostanze alla sua missione di padre putativo. La sua fidanzata si fece monaca, e don Benito seguitò a renderle visita in convento per il resto dei suoi giorni. Il nipote Eduardo Ferrer ritiene che suo zio fosse un santo: anche se giunto a un meritato successo come liutaio, rinunciava a comperarsi abiti e scarpe per sostenere la famiglia di una sorella rimasta vedova. La storia di questo artefice ci mostra un altro aspetto dell’anima di Granada, che non è soltanto la città “delle meditazioni serene e delle facili gioie”, ma anche la città dal paesaggio a tratti pervaso di claustrale misticismo, con sentieri velati dall’ombra austera dei cipressi.
Ho parlato, in precedenza, della genesi granadina dell’arte di Andrés Segovia. La sua prima chitarra, che egli suonò fino al 1904, era stata – secondo una voce mai smentita dal maestro – di Paco de Lucena, sommo esponente del flamenco: infatti, agli inizi, il ragazzo Segovia imitava le sue falsetas (e non le dimenticherà mai). Dopo l’incontro-rivelazione con Gabriel Ruiz de Almodóvar, divenne urgente per lui procurarsi una chitarra classica. Nella sua autobiografia pubblicata in inglese (An autobiography of the years 1893-1920), Segovia racconta come giunse in possesso di tale strumento: fu nell’atelier di Benito Ferrer (situato allora in Calle de las Campanas) che l’agognata chitarra fu tolta da una bacheca e consegnata alle mani avide del giovanissimo virtuoso. Si trattava – sembra – di una chitarra da studio, e l’acquisto fu facilitato da Miguel Cerón – personaggio onnipresente nelle cronache d’arte di Granada in quell’epoca -, che comperò lo strumento per conto del più giovane amico, dal quale sarebbe poi stato rimborsato a rate. Segovia, con quella chitarra, avrebbe bruciato le tappe della sua formazione da autodidatta: cinque anni dopo, si sarebbe presentato in pubblico per il suo debutto ufficiale, che ebbe luogo in una delle domeniche di settembre del 1909 – non si esattamente quale – ovviamente, con la chitarra di Benito Ferrer. Fu il concerto-esordio di un chitarrista di Granada a Granada con una chitarra costruita da un liutaio di Granada: tout se tient. Probabilmente, gli ascoltatori che ebbero la ventura di assistere a quell’evento non immaginavano quale seguito ne sarebbe scaturito nei decenni successivi!
Segovia avrebbe abbandonato la chitarra di Benito Ferrer soltanto nel 1913, in occasione del primo concerto che diede a Madrid, e l’avrebbe messa da parte non certo per uno strumento qualsiasi, ma per la prodigiosa chitarra costruita nell’atelier di Manuel Ramirez dal geniale Santos Hernández: anch’essa regalatagli dal munifico (e lungimirante) titolare del marchio (sia detto en passant, non credo che Segovia abbia mai comperato una chitarra in vita sua, dopo quella di Ferrer). Mi sembra importante sottolineare il fatto che il grande chitarrista riconosce in pieno, nel suo scritto, il valore di Benito Ferrer, e si rammarica soltanto della povertà che impediva al generoso guitarrero di comperare legni pregiati (noi oggi sappiamo che quella povertà non era una costrizione, ma una scelta fatta per altruismo). Quella che lega la chitarra di Benito Ferrer alla chitarra di Santos Hernández è dunque una linea di continuità, e non è una rottura.
Non dispongo di soccorsi documentali per sostanziare una mia supposizione, ma non rinuncio a renderla nota: Segovia, che tornò spessissimo in Andalucia – almeno fino alla sua fuga dalla Spagna nel 1936 – può benissimo essere stato il tramite consapevole di una relazione che si stabilì tra la guitarrería granadina e quella corrente della guitarrería madrilena che avrebbe preferito la preziosità del suono e la ricchezza timbrica alla potenza dell’emissione. Non posso provare che sia stato Segovia a mostrare la sua fiammante Santos Hernández a Benito Ferrer o ad altri guitarreros granadini, ma credo che l’unico influsso che questi assorbirono dall’esterno – a parte Torres – sia stato esercitato dagli strumenti del maestro madrileno. In seguito, scomparsi i Manuel Ramirez, gli Hernández e gli Esteso – le chitarre di Granada e quelle di Madrid sarebbero diventate tanto differenti da poterle distinguere – come dicevo prima – a vista.
Una delle innovazioni che caratterizzarono l’attività concertistica di Andrés Segovia fu la sua asserita convinzione che la chitarra – diversamente da quanto aveva affermato Dionisio Aguado e da quello che credevano i chitarristi suoi contemporanei – dovesse farsi ascoltare soltanto in ambienti di modeste dimensioni – dai salotti alle piccole sale -, evitando i grandi auditori e i teatri. Fu proprio in questi, invece, che Segovia, fin dai suoi esordi, pretese e ottenne di suonare, e per farlo con l’enorme successo che gli fu tributato si servì principalmente di due chitarre: quella di Santos Hernández e quella di Hermann Hauser – adottata a partire dal 1937 e adoperata fino al 1962 (Hauser si era ispirato alla chitarra Hernández di Segovia). Ebbene, queste due chitarre non erano dei cannoni: la loro principale caratteristica era la straordinaria bellezza del suono, la docilità della risposta ai cambi di attacco, la ricchezza timbrica, la tenuta delle durate. Segovia privilegiò questi valori, fidando in una proprietà legata intrinsecamente alla formula armonica del suono: quella della cosiddetta proiezione, che rende la sonorità perfettamente udibile anche in una sala di ampie dimensioni. Come gli disse una volta Igor Stravinskij, “la sua chitarra non suona forte, ma lontano”.
Si può riconoscere questo valore, nelle chitarre di Granada, come una caratteristica fondamentale: i maestri che hanno ereditato l’arte del caposcuola Ferrer non hanno puntato al “gran suono”, ma al “bel suono”, alla sua varietà, alla sua plasmabilità e alla sua trasparenza – il che, si noti bene, non ha mai pesato come un limite nell’uso delle chitarre in grandi ambienti. Per ottenere questo risultato, i liutai granadini non hanno scatenato rivoluzioni nell’architettura dello strumento, e hanno – in linea generale – mantenuto la concezione di Antonio Torres e di Santos Hernández. Hanno invece instancabilmente lavorato per linee interne, perfezionando ogni dettaglio che potesse influire, anche minimamente, sul suono: un suono che si differenzia nelle opere di ogni singolo artefice, certo, ma che trova comunque, in ogni chitarra granadina ben riuscita, un’esemplificazione tipica e inconfondibile.
L’ampiezza della gamma timbrica è certamente l’aspetto più prezioso e artisticamente utile di questa concezione: il registro basso esibisce un colore scuro, notturno, che non smarrisce la sua impronta tonale nemmeno quando l’esecutore attacca le corde vicino al ponte, per ottenere suoni nasali, da fagotto; all’opposto, il registro acuto suona con una trasparenza liquida, luminosa, ed esalta la ricerca dell’interprete sensibile e fantasioso, capace di evocare il timbro puro del clarinetto e quello – carico di armonici – dell’oboe. E’ certo che questa caratteristica dipende dalla scelta del legno della tavola, ma questo è solo l’inizio; “intonarla” regolandone gli spessori, applicare barre trasversali di sostegno e varetaje realizzando il giusto equilibrio tra solidità strutturale e prontezza di risposta alle vibrazioni delle corde, sono operazioni di alta chirurgia nelle quali non esiste altro bisturi che quello offerto dall’ingegno e dall’esperienza del liutaio, e il far parte di una tradizione, l’aver appreso l’arte in una città-tempio dove le chitarre si fabbricano da secoli è, in questo senso, un privilegio determinante, una sorta di investitura.
La ricerca del suono perseguita da certi guitarreros granadini può essere apparentata all’arte di certi maestri della pittura iperrealistica del Novecento, che hanno saputo rinvenire, oltre l’aspetto “reale” degli oggetti, un’ulteriore, e ancora più limpida, evidenza. Antonio Marín Montero – per fare un nome illustre – è l’Andrew Wyeth della chitarra: i suoi strumenti permettono di “vedere” la musica in una sorta di sublimazione della realtà in cui tutto ciò che esiste è nuovo e abbagliante, in una naturalezza depurata fino all’estremo limite della percettibilità. Esistono – e sono evidenti – alcune somiglianze tra le sue chitarre e quelle della dinastia Hauser: l’ispirazione comune ha avuto origine nel grande esempio di Antonio Torres. Sono tuttavia evidenti – nell’impronta del suono – le differenze: e qui proprio le parole vengono a mancare. Se mi si domandasse però qual è stato il liutaio non spagnolo i cui strumenti risultano più simili a quelli granadini, direi senza esitazione: Robert Bouchet.
E non mi stupisce il fatto – riferito da Jack Clark nel suo articolo “Luthiers of Spain” (Guitarmaker, Spring 2008) – che Antonio Marín Montero e il grande liutaio parigino si conobbero, si frequentarono e giunsero al punto di costruire una chitarra insieme, in occasione di un soggiorno di Bouchet a Granada.
Era inevitabile che questa Camelot di cavalieri-guitarreros chiamasse a sé non soltanto committenti ed estimatori, ma anche parecchi giovani liutai provenienti dall’estero. Più che di imparare dai maestri granadini l’arte della costruzione, questi ispirati miravano a diventare membri della Tavola Rotonda delle sei corde, stabilirsi a Granada, diventarne cittadini, respirarne l’aria: avevano capito che non si trattava solo di imparare a tagliare e ad assemblare legni con raffinate procedure, ma anche – e soprattutto – di essere parte di una comunità di artefici uniti da un comune progetto. Ecco quindi, nella nomenclatura di questo ideale gremio, accantoai nomi dei nativi granadini, comparire nomi come Bernd Martin, Franz Butscher, Henner Hagenlocher, John Ray, Jonathan Hinves, Rolf Heichinger, Réné Baarslag, Stephen Hill – ai cui portatori la chitarra granadina ha poco a poco svelato i suoi segreti. Non è possibile immaginare che la trasmissione di questa sapienza sia avvenuta senza il soccorso di una straordinaria generosità: i maestri granadini e i loro allievi stranieri (ora maestri e granadini a loro volta) hanno operato in un clima culturale e spirituale che sembra del tutto alieno alla sfrenata competitività del commercio, e tuttavia, alla fine, questa loro fratellanza è stata ben remunerata nella stima e nel prestigio acquistato in tutto il mondo dall’intera categoria.
Alla fine di questo scritto, mi rendo conto di non essermi mai permesso di collocare una chitarra di Granada nel mio studio. Mi domando perché e, sapendo che l’omissione non viene da penuria, scopro che ha origine nella mia consapevolezza di aver ammirato e amato Granada, ma di non averne mai fatto parte: poiché la vita mi ha portato o trattenuto altrove, resiste in me il timore di imporre l’esilio a una messaggera alata dei giardini di Lindaraja e di farne un’altra princesa cautiva: Segovia era di Granada, io no. Ma quando un giovane virtuoso mi domanda quale chitarra faccia al caso suo, se il suo occhio è vivo e la sua mente è limpida, la risposta è data senza bisogno di pensarci: vai a Granada, restaci una settimana, e torna con la chitarra che ti avrà fatto capire la differenza tra che cosa eri e chi sei.
Vercelli, Italia, maggio 2011.
Angelo Gilardino