Ralph Fiennes (Movieplayer)
Se per il regista berlinese il suddetto sentore trovava però sfogo in una rappresentazione sagace e beffarda della nobiltà europea, portandola a coincidere con l’immaginario proprio degli spettatori dell’epoca, fra autobiografia e toni ora indulgenti ora inclini ad evidenziane l’inconsistenza, Anderson invece, pur nel’identico richiamo al vaudeville e all’operetta (con l’aggiunta dei fumetti), in un continuo gioco di rimandi e citazioni, ci costruisce su una metafora del tempo che passa, mutando nelle sue forme rappresentative (vedi il formato dello schermo cangiante a seconda degli anni in cui si svolge la narrazione) e nella percezione di determinati ideali da parte degli esseri umani. Ecco che l’amicizia, l’amore, il valore fondante delle proprie origini, in una sorta di trasmissione ereditaria, rimangono qualcosa di vitale per quanti, appellandosi ad un personale senso di disciplina, riescano a renderli definitivamente propri, resistendo all’incedere di ogni totalitarismo disumanizzante pronto ad ergersi sprezzante in nome di una presunta superiorità. Grand Budapest Hotel è, inoltre, una pellicola idonea a conferire compiuta valenza al’arte del narrare, la quale viene visualizzata attraverso una struttura circolare, nella coincidenza fra la sequenza iniziale e quella conclusiva.
Fiennes e Toni Revolori (Movieplayer)
Tante le persone coinvolte nei vari accadimenti, a partire dal figlio della suddetta madame, Dimitri (Adrien Brody), che può contare su un sadico e ghignante scagnozzo a suo servizio, Joplin (Willem Dafoe), mentre l’amicizia fra Gustave e Zero si fa sempre più salda, anche se il loro mondo così particolare, la cultura e i valori da esso rappresentati, pur sotto la spessa coltre costituita da frivolezze di ogni tipo, stanno per scomparire causa l’avvento di un regime totalitario, con tanto di braccio esecutivo armato, il corpo delle ZZ, a garantirne l’effettività … Palesemente finto nella ricostruzione sia digitale che “antica” (ricorrendo ai classici modellini) della scenografia, propria di tante pellicole passate rappresentative degli ambienti bene dell’epoca e dei suoi stravaganti protagonisti, Grand Budapest Hotel scorre piuttosto velocemente, suddiviso in capitoli, idonei a far entrare in scena i più disparati personaggi (fra i tanti, cito Harvey Keitel nel ruolo di un detenuto del campo d’internamento dove è detenuto Gustave, o Bill Murray, altrettanto impareggiabile collega di quest’ultimo, nonché membro della Società delle chiavi incrociate), accompagnati da vistose e veloci carrellate, sottolineate ulteriormente dall’incedere musicale a cura di Alexandre Desplat, che è ricorso all’impiego di balalaiche e altri strumenti non convenzionali.
Tilda Swinton (Movieplayer)
Incorniciato da un flashback piuttosto naturale, che fa leva sulla memoria delle persone, la volontà di non far cadere nell’oblio un particolare periodo, coincidente con importanti momenti della propria vita, contraddistinti da repentini mutamenti e piacevoli scoperte (l’amore di Zero per Agatha, Soirse Roman, simbolo di purezza ed innocenza), il film appare connotato, attraverso il personaggio di Moustafa, dai toni della nostalgia e del rimpianto, mai dell’odio o dello spirito di rivalsa nei confronti di chi comunque gli abbia fatto del male, memore degli insegnamenti del suo mentore su come far fronte alle varie vicissitudini, mantenendosi in fondo integro anche nella necessità di adoperare ogni forma di scaltrezza. D’altronde anche lo stesso concierge può ritenersi un puro di cuore, nella specie riguardo il proprio bisogno d’affetto, compensato apparentemente da una serie di facezie ed accortezze esteriori, ma più concretamente nel prendersi cura degli altri, acquisendo qualcosa d’inedito per sé da chi sta al mondo da più anni di lui, e trasmettendo ai giovani un minimo di senso estetico e la concretezza del “saper vivere” in aderenza a presupposti etici strutturati in aderenza alla propria personalità.
Revolori e Soirse Roman
Fra un omaggio qua e là alla comicità slapstick delle vecchie comiche del muto (l’inseguimento sulla neve, ad esempio), il film abbina in ogni sequenza bizzarrie ed accuratezza formale, comicità e senso del tragico, stravaganze e trovate grottesche.
Tale caleidoscopio inventivo, però, fatica, almeno questa è stata la mia sensazione, ad acquisire la leggiadria definitiva di un “tocco”, agglomerante e sincretico, anzi man mano finisce con il concretizzarsi in qualcosa di velleitario, per quanto piacevole ed ottimamente realizzato, in particolare in un ambito essenzialmente visivo (le scenografie di Adam Stochausen, i costumi di Milena Canonero, la “violenta” fotografia di Robert Yeoman, coi suoi colori accesi), sempre idoneo, comunque, ad offrirci un’ulteriore versione della visione del mondo secondo Anderson, favolistica e reale allo stesso tempo, al cui interno sogno ed incubo a volte si stringono la mano, altre giocano a nascondino, nella tangibilità dell’emozione più pura e sincera.