Romanticismo, ironia, inquadrature geometriche colori infiniti, che sia una pellicola wesandersoniana "Grand Budapest Hotel" nessuno può metterlo in dubbio, il regista ha raggiunto ormai una piena consapevolezza del cinema che ama esprimere e ancor più di se stesso, tuttavia, guardando un passo indietro e rispolverando forse il suo capolavoro, ovvero "Moonrise Kingdom", è forte il contrasto che passa tra un lavoro curato fino ai dettagli ed un'altro che invece non convince mai fino in fondo.E' un racconto che esalta la bellezza del racconto questa ultima fatica, ma, al di là di un incipit divertente e affascinante, pare andare a soffrire velocemente di un affanno assai considerevole, conseguenza pensiamo della fatica di chi non è abituato a gestire come singola persona l'intera forza lavoro di una scrittura apparentemente ciclica ma mai uguale dei suoi lavori. "Grand Budapest Hotel" allora, consciamente o meno, si limita a colpire più per la sua magnificenza visiva, per le sue inquadrature e movimenti di camera meravigliosi, deludendo abbastanza sotto quell'aspetto emozionale e pulsante, teoricamente punto di forza del suo regista.
Procede testarda quindi la rincorsa ai sentimenti e alla giustizia, così come la conferma di alcuni capisaldi da proteggere ed incoraggiare al pubblico, eppure tutto sembra proposto in maniera meno carica ed efficace del solito. La seduzione proposta dall'ambientazione di inizio novecento e da un cast enorme e lunghissimo (composto soprattutto da partecipazioni di amici) non toglie "Grand Budapest Hotel" dalla griglia di una brace sulla quale mai ci aspettavamo di vederlo finire. Le premesse dopo il recente Oscar alla sceneggiatura evidentemente erano molto alte ma la mancanza di colleghi fidati in fase di concepimento è stata, secondo chi scrive, la falla maggiore.
Trailer: