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Grandi manovre nel Golfo. Chi vince e chi perde tra Arabia Saudita e Qatar

Creato il 27 maggio 2014 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Il 5 marzo Arabia Saudita, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti hanno ritirato i propri ambasciatori dal Qatar in seguito ad una spaccatura senza precedenti all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Ufficialmente, la ragione è la mancata applicazione, da parte di Doha, dell’accordo di sicurezza approvato dal Consiglio durante un vertice a Riyad nel maggio 2012. In realtà la questione è più articolata e investe la ridefinizione dei rapporti di forza nel quadrante della Penisola arabica.

Nei primi mesi del 2011, quanto il vento delle Primavere arabe soffiava impetuoso su tutta la regione mediorientale, l’opposizione al cambiamento in nome dell’ancient régime aveva cementato i rapporti tra le petromonarchie del Golfo in una sorta di Santa alleanza contro le aspirazioni di libertà dei rispettivi popoli: si pensi a quanto accadde nel Bahrein, quando la Peninsula shield force (organo militare del Ccg) intervenne militarmente su richiesta di Manama per sedare la sollevazione della maggioranza sciita. Ma quella fase non poteva durare per sempre. Spenti i focolai di protesta, il vincolo di solidarietà tra le monarchie sunnite ha dovuto fare un passo indietro rispetto ai contrapposti interessi geopolitici degli attori in gioco. Da un lato la monarchia saudita, vicina ai movimenti salafiti, da sempre in buoni rapporti con la vecchia dirigenza dell’Egitto dei militari e attorno alla quale gravitano un po’ tutti gli altri Stati della Penisola, animati dal comune obiettivo comune del contenimento della Fratellanza musulmana e delle sue istanze riformiste; dall’altro il piccolo e facoltoso emirato del Qatar, principale sponsor dei Fratelli e potente influencer dell’opinione pubblica internazionale grazie al network Al Jazeera. 

In un primo momento, ad avvantaggiarsi dei sommovimenti che stavano pian piano ristrutturando la geografia politica del Nord Africa era stata proprio Doha: in Egitto e Tunisia, la cacciata dei patriarchi Mubarak e Ben Alì aveva permesso alla Fratellanza di uscire dalla clandestinità e di preparare una (scontata) vittoria nelle prime elezioni libere dei due Paesi; in Libia, la guerra civile aveva spazzato via il quarantennale dominio di Gheddafi in favore dell’islamismo politico; la Siria, infine, la presidenza di Assad sembrava avviata verso la stessa fine. La vecchia dinastia saudita, al contrario, si manteneva in sordina, preoccupata più di prevenire una propria rivoluzione che ad influenzare quelle degli altri.

A tre anni da quei mesi convulsi, la situazione sembra capovolta. L’attivismo dell’emiro al-Thani, specie nei teatri di Egitto e Siria, non ha dato i frutti sperati. La presidenza Morsi è durata appena un anno, mentre quella di Assad a Damasco prosegue indisturbata; oggi al Cairo sono sempre i militari a mantenere le redini del potere, e i ribelli siriani appaiono sempre più in difficoltà di fronte alla controffensiva dell’esercito lealista. La stella del Qatar si è lentamente appannata, mentre sull’altro fronte la Casa di al-Sa’ud ha recuperato molte posizioni. Una contrapposizione il cui prezzo, per i qatarini, rischia ora di diventare molto caro

Il ritorno dei sauditi

Due notizie hanno riportato l’Arabia Saudita al centro dell’attenzione. Il 13 ottobre 2013, l’ambasciatore di Riyad presso le Nazioni Unite, Abdallah al-Mouallimi, ha annunciato il rifiuto del suo Paese di accettare un seggio nel Consiglio di sicurezza, a cui peraltro ascendeva per la prima volta. Un evento senza precedenti nella storia del Consiglio. La motivazione ufficiale era il dissenso della monarchia verso la politica mediorientale degli Stati Uniti, colpevoli di non aver attaccato militarmente al-Assad in Siria e di cercare il disgelo con l’Iran del nuovo presidente Rohani. Per anni gli obiettivi mediorientali dell’Arabia Saudita hanno coinciso con quelli degli Usa, ma dallo scoppio della cosiddetta Primavera araba il quadro è parzialmente cambiato, con Washington pronta ad appoggiare la Fratellanza Musulmana in Egitto (Riyad invece sosteneva Mubarak) e ad aprire un dialogo con l’arcinemica Teheran.

L’idea che l’Arabia Saudita possa condurre una politica svincolata dagli obiettivi degli Usa suggerisce anche l’esistenza di un disegno più ambizioso. Secondo il Gatestone Institute, il rifiuto della monarchia di ricoprire un seggio nel Cosniglio di Sicurezza rifletterebbe il tentativo di delegittimare le organizzazioni internazionali “secolari” come l’Onu in favore dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica, organismo che già oggi, con i suoi 56 membri, rappresenta il consesso mondiale più ampio proprio dopo le Nazioni Unite. Il mondo islamico aveva lanciato il guanto di sfida all’attuale ordine internazionale già nel 1990, rendendo nota una Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (la Dichiarazione del Cairo) alternativa a quella di Parigi del 1948. A più di vent’anni da quella pronuncia, il no di Riyad all’Onu rappresenterebbe un ulteriore passo avanti verso un ordine internazionale basato sulla Sharia, alternativo a quello euro e americocentrico.

Tuttavia, per sfidare l’ordine costituito bisogna essere un peso massimo della geopolitica. Se non hai le dimensioni della Russia, l’economia della Cina o l’esercito e la tecnologia degli Usa, è evidente che la tua corsa verso il primato debba passare attraverso altre strade. Ad esempio la bomba atomica. Poche settimane dopo il gran rifiuto di Riyad, la BBC ha rivelato che l’Arabia Saudita stava investendo fior di quattrini nello sviluppo di armi nucleari in Pakistan per realizzare un proprio arsenale. Per anni il mondo si è preoccupato di un’atomica in mano all’Iran senza accorgersi che la bomba stesse per acquisirla prima Riyad. Si sa che la petromonarchia punta a diventare un leader nel settore dell’energia nucleare, ma nessuno pare esserci chiesto se tale programma avesse solo scopi civili o anche degli inquietanti risvolti militari. Lo scoop della BBC sembra aver dato una risposta, che spiega anche come mai i sauditi comincino ad intraprendere una politica “autonoma” rispetto alla tradizionale convergenza di interessi con gli Usa. Con l’atomica in tasca, per Riyad la protezione dell’America – e di riflesso la sua influenza sul regno – perderà inevitabilmente importanza.

Oman ed Emirati, l’attendismo paga

Due altri Paesi le cui quotazioni geopolitiche registrano un rialzo sono il sultanato dell’Oman e gli Emirati Arabi Uniti. La cui caratteristica comune è quella di aver marciato a fari spenti, evitando spericolate iniziative come il vicino Qatar e mantenendo buoni rapporti con l’Iran senza però alienarsi i favori del Grande fratello saudita.

Soprattutto l’Oman ha seguito in questi anni una politica di non allineamento, dettata da una posizione geopolitica potenzialmente a rischio (fra l’Iran sciita e le monarchie sunnite) e intenta a perseguire un’attività diplomatica originale fuori dai tradizionali schemi arabi. Così, mentre il Medio Oriente vive all’insegna della polarizzazione tra governi filosauditi e filoiraniani, il sultanato è l’unico paese della regione ad avere buoni rapporti sia con Riyad che con Teheran. Nel 2010, l’Oman e l’Iran hanno anche siglato un patto di difesa che prevede esercitazioni militari congiunte. Non solo, l’Oman ha sempre difeso il diritto iraniano all’arricchimento dell’uranio, senza però suscitare la disapprovazione degli Stati Uniti. Anzi, il ruolo di Muscat nel riavvicinamento tra Washington e Teheran è stato fondamentale. Tutto merito dell’oculata diplomazia del sultano Qaboos. Nella recente classifica stilata ogni anno dal Royal Institute of Islamic studies di Amman,  il Sultano omanita risulta la nona personalità di fede musulmana più influente al mondo.E può reprimere indisturbata il dissenso interno - che pur non manca - dietro il pretesto della lotta all’islamismo militante .

La politica del basso profilo ha giovato anche agli Emirati Arabi Uniti. Abu Dhabi ha scelto di non interferire nelle crisi di Egitto e Siria, preferendo adeguarsi alle posizioni già espresse dall’Arabia Saudita. Dietro questo approccio passivo si cela comunque un obiettivo importante: ridefinire i rapporti di forza tra i sunniti del Golfo. fondata sul minimo coinvolgimento politico e tuttavia mirante dotarsi di un profilo di politica estera riconoscibile. Così, mentre la stella del Qatar si offusca, Abu Dhabi può incassare i dividendi di un lavoro oscuro durato anni. Tra l’altro, il contrasto tra i due Paesi si è palesato proprio all’inizio di quest’anno. In febbraio Yusuf al-Qaradawi, teologo egiziano naturalizzato qatarino e presidente dell’Unione internazionale degli studiosi musulmani, nei suoi sermoni aveva invitato gli egiziani alla rivolta contro i militari, criticando aspramente sia l’Arabia Saudita sia gli Emirati Arabi Uniti. Inevitabile la reazione di Abu Dhabi, che ha sfruttato l’occasione per attaccare frontalmente l’emirato.

Nel corso della sua visita negli Emirati a inizio gennaio, il segretario di Stato americano John Kerry ha sottolineato la centralità della cooperazione fra Stati Uniti, Arabia Saudita ed EAU per il sostegno all’Egitto, da una prospettiva economica e militare. Cooperazione che nel caso dei due alleati arabi nasconde una feroce competizione. Il motivo principale per cui Abu Dabhi – e per la verità l’intero CCG – desiderano mantenere un’influenza sulla politica egiziana è quello di bilanciare il doppio confronto con l’Iran e la monarchia saudita. Per gli EAU, in particolare, esercitare un potere sulla asfittica economia del Cairo significa disporre di una leva con cui arginare il peso culturale di Riyad e del wahhabismo nella Penisola arabica. Per questa ragione, l’Egitto rappresenta un terreno di confronto tra le monarchie sunnite della Penisola. Da una parte Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, sostengono i militari al potere; dall’altra il Qatar, finanzia e supporta i Fratelli Musulmani ora caduti in disgrazia. Con Doha ormai fuori gioco dopo la defenestrazione del suo protetto Morsi, la partita del Cairo si gioca tra Riyad e Abu Dhabi. Un punto a suo favore potrebbe segnarlo presto la prima. I sauditi hanno chiesto all’Egitto di entrare a far parte del Consiglio del Golfo, organo di cui sono azionisti di maggioranza. Una mossa che renderebbe di fatto vani le iniziative degli altri competitor. Con un Egitto saldamente legato alla dinastia di Sa’ud, l’egemonia di quest’ultima nella Penisola non sarebbe più in discussione.

Conclusioni

Torniamo al punto di partenza. L’accordo di sicurezza di Riyad sancisce il principio di non ingerenza negli affari interni degli Stati firmatari e intende rafforzare la cooperazione in materia giudiziaria, in particolare attraverso la condivisione di informazioni sensibili e la semplificazione delle procedure per di estradizione. Nelle pieghe del testo troviamo anche altro:  gli Stati del CCG si impegnano a non sostenere gruppi o individui che minaccino la stabilità dei Paesi membri, sia per via diretta sia indiretta. Qui segue un riferimento ai media definiti “ostili”, e la mente non può che andare ad Al Jazeera, network principe della propaganda pro Fratellanza nel mondo arabo. L’Arabia Saudita, spalleggiata dal Bahrein (praticamente annesso dalla Casa di Sa’ud tre anni fa) ed Emirati, ha utilizzato questo passaggio dell’accordo come pretesto per rompere le relazioni diplomatiche con il Qatar, isolando Doha dal consesso.

E’ ancora presto per definire i contorni di questa manovra politica tesa a ridimensionare il ruolo dell’emirato. Nell’immediato la mossa giova all’Arabia Saudita, rafforzata all’interno del CCG, ma nel medio-lungo periodo rischia di indebolire il Consiglio stesso. Qualora la tensione diplomatica fra i due vicini dovesse sfociare in un’aperta contrapposizione, ciò comprometterebbe il ruolo di mediatore regionale giocato fino ad oggi dal Consiglio di cooperazione, mettendo in forse la stabilità della regione.

Curioso che la Penisola, uscita indenne dalla tempesta delle Primavere arabe, possa ora vacillare nella lotta tra quei monarchi assoluti che del vento di libertà dei popoli avevano così abilmente respinto le folate.

Articolo scritto per The Fielder


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