GRAVE DIGGER – Exhumation: The Early Years (Napalm)

Creato il 25 novembre 2015 da Cicciorusso

I dischi di brani vecchi risuonati e riregistrati con una produzione moderna per renderli più appetibili ai giovincelli sono grossomodo il Male Assoluto, agli stessi livelli delle birre artigianali e dei film, finanziati dalle vostre tasse, sulle coppie di intellettuali di sinistra che patiscono un vuoto esistenziale che né la villa ai Parioli né le vacanze a Capalbio riusciranno mai a riempire (almeno, se volete girare ‘sti film, sinceratevi che alla fine il protagonista venga picchiato a sangue da quattro redskin ubriachi che nel frattempo intonano Tu non sei dalla mia parte dei Colonna Infame, allora sì che pagherei il biglietto volentieri). L’esempio più turpe, in questo campo, resta l’abominevole remake di Stormblast dei Dimmu Borgir, che dieci anni fa aprì nuove, e tuttora insuperate, frontiere dell’orrido. La questione di base è la stessa dei remake Usa degli horror asiatici a beneficio di quegli americani che subirebbero uno shock culturale troppo devastante qualora scoprissero che a Tokyo il conto della pizzeria si paga in yen e non in dollari. È anche il pensiero analitico che ci distingue dai bonobi, perdiana. Ci siamo capiti, immagino. È come se gli eredi di D’Annunzio rielaborassero l’Alcyone con un vocabolario di 300 parole per venire incontro a chi non capisca cosa voglia dire “onniveggente”. Tutto questo discorso si applica, però, solo parzialmente a questa ennesima release celebrativa dei Grave Digger, che festeggiano i trentacinque anni di attività con una raccolta di pezzi (risuonati e riregistrati con una produzione moderna per renderli più appetibili ai giovincelli) tratti dai loro primi tre dischi.

I crucchi, invecchiando, hanno fatto dell’autocitazione una cifra stilistica. Prima la seconda parte di Tunes Of War, poi il ritorno della Mietitrice: Return Of The Reaper dell’anno scorso, che mi aveva pure preso bene. Quindi le riedizioni al botox di Headbanging Man e Witch Hunter ci possono pure stare, considerando che quegli album, a differenza di Stormblast, non è che fossero proprio spettacolari, nel loro complesso. Exhumation (The Early Years) come sottofondo durante un sordido consesso etilico con gli amici il giovedì sera può pure fare la sua suina figura. Innanzitutto, il Chris Bolthendal dell’epoca ancora stava cercando di capire se fosse in grado di cantare in maniera ordinaria o meno, mentre oggi, conscio dei suoi limiti, latra e grugnisce che è un piacere per 55 minuti. In secondo luogo, la cassa più dritta e le chitarre più serrate danno fastidio solo fino a un certo punto perché esaltano quegli adorabili stereotipi del metallo tetesco che nel frattempo i Grave Digger hanno cristallizzato fino a diventarne la principale summa theologiae insieme ai Running Wild. Certo, con un po’ più di coraggio avrebbero potuto riarrangiare un paio di canzoni di Stronger Than Ever, il loro piccolo Cold Lake, un tentativo (ovviamente fallito) di svolta commerciale, uscito per giunta solo a nome Digger. C’era pure una specie di Paperino cyborg in copertina. Vabbè, vado a stapparmene un’altra.

Vi lascio con il meraviglioso cartone animato autoironico e poveristico (Metalocalypse in confronto sembra un film della Pixar) che costituisce il video, girato per l’occasione, di Heavy Metal Breakdown, dove i nostri vengono raffigurati come vecchietti dell’ospizio in attesa della visita della Mietitrice. Come si fa a non voler bene ai Grave Digger, suvvia. (Ciccio Russo)