E’ un’opera certo affascinante e coinvolgente, soprattutto visivamente, complice un’ottima fotografia (Emmanuel Lubezki) ed un uso sapientemente funzionale della tecnica stereoscopica, anche se, almeno a mio parere, il 3D non è poi così indispensabile.
Sandra Bullock e George Clooney
I primi 15 minuti in particolare sono da antologia del cinema, grazie al lungo piano sequenza e alla visione in soggettiva di quanto sta accadendo nel corso di quella che sembra essere una normale missione nello spazio: due membri dell’equipaggio, la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock), alla sua prima esperienza, e l’astronauta di lungo corso Matt Kowalsky (George Clooney), ormai prossimo alla pensione, sono intenti (o, meglio, la prima lo è, il secondo offre il suo aiuto dopo una “passeggiata” nei dintorni e quattro chiacchiere con la base di Houston) alla manutenzione del telescopio Hubble, quando una serie di detriti provenienti dall’esplosione di un satellite russo scatenerà un disastro dalle imprevedibili conseguenze…Sandra Bullock
Dopo aver ripreso respiro dalla visione della suddetta apertura, confortati da una narrazione tutto sommato abbastanza fluida nel suo scorrere, ad un certo punto (più o meno a metà film) tale affascinante fluire, movimentato a livello adrenalinico dal rapido susseguirsi dei vari colpi di scena, diviene improvvisamente stancante e monotono.Se Clooney si destreggia con la consueta nonchalance, la Bullock alla lunga appare convincente solo in parte nel sostenere il classico tema hollywoodiano dell’essere umano dal passato tormentato e segnato da dolorose esperienze, il quale, trovandosi innanzi ad una serie di avversità, oscilla nel dubbio “se soccombere ad esse o rivolgervi le armi contro”, così da rinascere a nuova vita una volta assunta la consapevolezza che, a volte, occorre perdersi per poter ritrovare se stessi.
George Clooney
Infatti Cuarón mette in scena una metafora sulla vita, la lotta nel fronteggiare le paure più intime, i propri limiti, e il ricorso ai citati pregevoli effetti visivi ne fa spesso dimenticare il tono fortemente didascalico, anche nei vari simbolismi (la tuta può essere vista come una sorta di bozzolo da cui rinascere liberi da timori e contraddizioni, il viaggio nello spazio la ricerca di un punto di contatto con l’infinito, i detriti che ti piombano addosso quanto può esserti scagliato contro da un’ “oltraggiosa sfortuna” e così via), offrendo in definitiva un valido compromesso fra profondità tematica da film autoriale e l’immediatezza emozionale di un buon prodotto d’intrattenimento. Riguardo il confronto con Stanley Kubrick e il suo 2001 Odissea nello spazio, ’65, proposto da varie parti, a mio avviso non regge, rilevando al riguardo più sostanziali differenze che punti di contatto.Alfonso Cuarón
Gravity, in conclusione, è in primo luogo un film da vedere, memorabile in particolare nella splendida apertura e nel finale, aperto verso una nuova vita, libera da qualsivoglia sovrastruttura, dove l’umanità possa esprimersi nella sua primigenia ed integra purezza, “risorta” con la ritrovata forza di lasciare la propria personale impronta nel corso del cammino intrapreso. Rappresenta poi la conferma di come Cuarón abbia ormai trovato un personale centro di gravità permanente, grazie ad un felice punto d’incontro fra perfezione formale ed eclettica espressione del proprio talento.