Trama scarnissima se non quasi assente, rimpiazzata a sua volta dalle numerosissime e infinite catastrofi a catena che vanno a incastrarsi e a colpire i due astronauti scelti George Clooney e Sandra Bullock durante la loro missione di riparazione di un satellite guasto. Ma la distruzione semi-totale di base ed equipaggio che li colpisce non induce Cuarón a percorrere la strada più breve e ad incentrare la sua pellicola sulla sopravvivenza dei due protagonisti nello spazio (dove si svolge il 99% del film), intelligentemente (o furbamente), invece, il regista sceglie di affinare suo il punto di vista e di andare ad abbracciare a tutto tondo, e senza la minima fretta, la vita personale della dottoressa Ryan interpretata dalla Bullock, proclamandola di diritto reale protagonista della vicenda. Senza nascondersi, e scegliendo anche un paio di fotogrammi determinanti e fin troppo chiari, “Gravity” si trasforma allora in un opera di rinascita e di coraggio, il richiamo a una vita inizialmente asfissiata ma poi voluta indietro così fortemente da riuscire metaforicamente a ricostruirsi da zero.
Perché in altre mani “Gravity” anziché assumere un aspetto meraviglioso e a tratti irresistibile avrebbe rischiato di certo il tracollo, non c'è che dire. Eppure è anche vero che da un regista del calibro di Cuarón ci si aspettava senz’altro qualcosa di più sostanzioso che un apoteosi di abilità e tecnica come questa. Per quanto impeccabile, dunque, la fotografa finale sviluppata si avvicina più a quella del bicchiere mezzo vuoto, a meno che la rinascita della dottoressa Ryan non trovi una sorta di similitudine con quella del regista stesso, il quale, dopo un’assenza durata ben sette anni, aveva voglia di tornare a muoversi e rinascere cinematograficamente. In tal caso il “Gravity”-pensiero potrebbe cambiar pelle ed essere letto come la vittoria assoluta di una lunga maratona.
Trailer: