Se c'è un luogo in Italia (in Europa) dove il razzismo sarebbe,
se non giustificabile, quanto meno comprensibile, quello è
Lampedusa. Se c'è un posto in Italia (in Europa) dove la parola
“invasione” avrebbe senso, quello è Lampedusa. Venti kilometri
quadrati su cui si rovesciano ogni anno migliaia di donne, uomini,
bambini che il caso ha fatto nascere in luoghi dove una vita
dignitosa è una chimera e la mera sopravvivenza una sfida
quotidiana. E che per questo sono disposti a giocare a dadi con la
propria vita, sapendo che il viaggio che devono affrontare per
raggiungere le nostre coste è una roulette russa.
E invece da Lampedusa arrivano sempre lezioni di straordinaria
umanità. Alla domanda di un cronista che chiedeva di cosa avete
bisogno, la sindaca dell'isola Giusi Nicolini ha risposto: “Di
bare”. Non c'è tempo e spazio per polemiche politiche, qui ci sono
vite da salvare e corpi da seppellire. I lampedusani si trovano di
fronte uomini, donne e bambini che annegano ogni giorno davanti ai
loro occhi, non clandestini da ricacciare indietro a fucilate, come
forse qualcuno un po' più a nord auspicherebbe.
Tre pescherecci – denuncia sempre la sindaca – non si sono
fermati dopo aver visto il barcone perché avevano paura di essere
incriminati per istigazione all'immigrazione clandestina, che quei
geni dei nostri legislatori hanno deciso essere un reato.
Potremmo stare ore a discutere del nuovo colonialismo
dell'Occidente che – affamando i paesi del Terzo mondo – crea le
condizioni per queste tragedie. Ma facciamolo, di grazia, senza i
morti sui moli dei nostri porti. Aspirare a un mondo in cui nessuno
sia più costretto a lasciare la propria terra e i propri cari non è
giustificazione buona per lasciar morire quelli che – qui e ora –
annaspano in mare davanti ai nostri occhi.
Grazie Lampedusa.
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