Graziella Da Gioz: Riscoprire il Veneto e i suoi Paesaggi

Creato il 11 aprile 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il aprile 11, 2012 | ARTE | Autore: Scelsi Pier Paolo

«In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o ingoio». L’anno era il 2009 e all’Istituto Veneto delle Scienze e delle Arti Andrea Zanzotto, una delle più lucide e illuminate figure della poesia italiana del ‘900, era stato invitato a tenere una conferenza di presentazione del libro, edito da Garzanti e scritto sotto forma di conversazione con il giornalista Marzio Breda, che dai versi che abbiamo appena riportato prendeva nome. Ormai quasi novantenne, provato e incerto nel fisico e proverbialmente avverso alla folla, Zanzotto, nato nel 1921 a Pieve di Soligo tra i colli Trevisani e scomparso lo scorso ottobre a Conegliano, regalò a chi scrive e a tutti i presenti una serata magica, un’occasione per aprire la mente e riabituarla a pensieri la cui verità e la cui altezza spesso si dimentica di poter raggiungere, distratti e attratti dalla materiale quotidianità che spesso ci obbliga e ci abitua al mediocre, alla caccia all’opportunità, al divorare e “ingoiare” (ma saremo poi davvero noi il soggetto attivo di tutto questo? Oppure, come ci chiede il poeta, forse siamo null’altro che la preda cieca inconsapevole e boriosa che viene “ingoiata”?). Un’atmosfera difficilmente riproducibile e raccontabile si creò quella sera: le parole del maestro, deboli nella voce, timide e spesso mediate dalla moglie Marisa Michieli, obbligando al silenzio e alla massima attenzione, trascinavano chi ascoltava in una sorta di empatia, di condivisione della fatica, dello sforzo fisico e mentale che quelle faticose frasi recavano con loro. Ma allo stesso tempo, man mano che passavano i minuti, si cominciavano a cogliere forti e violenti l’impatto, la passione, il messaggio, di quelle parole sussurrate, fragili e leggere come piume. Si stava chiamando un uomo anziano a discernere di progresso e di futuro e mai una singola volta in tutta la sera, affiorò quello che ci si aspettava sentire da una persona che alla propria vita si rivolge girandosi di spalle: il rimpianto, la negatività, il rancore erano ospiti indesiderati e non invitati a quel convitto. La rabbia era fortemente presente, ma era una rabbia propositiva, che viveva il mondo, le emergenze climatiche, le crisi ambientali e politiche, la vacuità del “mondo del possedere”, come sfide difficili che il futuro ci obbligava a vincere.

La conservazione, la tutela e l’amore per il paesaggio, sono senz’altro un punto d’incontro con l’opera della pittrice che andiamo a introdurre. La bellunese Graziella Da Gioz, che dell’amicizia con Andrea Zanzotto fa uno dei punti cardine della sua biografia e della sua esperienza di vita. La ricerca pittorica della Da Gioz, dal 1986, anno di pubblicazione nella rivista parigina “Noise” delle illustrazioni alle liriche del poeta, fino alla recente mostra padovana “Disgelo” curata da Silvia Zava, vede nello studio del paesaggio il proprio elemento cardine. Formatasi vicino ad Emilio Vedova negli anni dell’Accademia di Belle Arti a Venezia, dal maestro del “Gruppo degli Otto” eredita il tratto pittorico, la dinamica e forse la gestualità delle pennellate, la stesura del colore che, soprattutto nelle opere più recenti è corposo, materiale, quasi tattile. Si distanzia però presto dal percorso artistico-progettuale intrapreso dalla cerchia di Vedova: non approda all’astrattismo geometrico puro e rielabora in maniera personale l’esperienza informale. Pur cimentandosi in molteplici tecniche (dalla pittura ad olio al pastello, fino a quella particolare, difficile e spesso sottovalutata dell’incisione), il paesaggio rimane sempre elemento centrale. Le colline e le montagne innevate, i prati imbiancati o verdi di un disgelo appena compiuto che ammiriamo in mostra a Padova le ritroveremmo facilmente nei ricordi di Andrea Zanzotto, di Guglielmo Ciardi, o semplicemente luogo dell’anima, memento onirico di tutte quelle persone che abitavano le zone dolomitiche o pre-dolomitiche alcuni anni fa.

Quadri in cui la presenza umana è quasi assente (a parte un’ombra rarefatta in una singola opera, omaggio alla figura della mai dimenticata giornalista, inviata de l’Unità, Tina Merlin, che per prima, negli anni ‘50, inascoltata avvertì dei pericoli legati alla costruzione dell’invaso della diga del Vajont), assente nella tela ma probabilmente solo relegata all’esterno, nelle sensazioni e negli occhi dello spettatore. Spesso cielo e terra si fondono, la neve, resa con forti pennellate bianche accarezzate da piccole increspature azzurre, culmina in un’impalpabile foschia che si spinge verso l’orizzonte e il cielo creando una continuità tonale che trasporta e affascina. La sensazione è di incamminarsi in un sogno, in un ricordo. Solo chi conosce quei posti, perché li ha vissuti o perché, semplicemente, li possiede dentro di sé può addentrarvisi, conosce la strada, e può viverli in un’esperienza spaziale che si fa quasi infinita nel caso dei grandi teleri concepiti come dittici o trittici.

Due parole vanno spese per l’ambientazione che accoglie la mostra. Sono sale a prima vista inconsuete per l’arte quelle dell’ultimo piano del grande magazzino de laRinascente in piazza Garibaldi a Padova. Ma forse è bello pensare che, come per esempio accadde nel 2006 per la mostra su Caravaggio e il Sacrificio di Isacco alla stazione Termini di Roma, anche per caso, portato lì da tutt’altro programma, qualcuno possa entrare e, quasi inaspettatamente incamminarsi in un percorso emozionale e artistico unico. L’arte di Graziella Da Gioz, qui all’ultimo piano, con i suoi paesaggi di un Veneto ormai nascosto e lontano, sembra interrogare e sussurrare all’orecchio dei consumatori-visitatori i celebri versi del poeta: «In questo progresso scorsoio / non so se vengo ingoiato / o ingoio».



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