Grisù, Giuseppe e Maria: Scandaletti di una Italia Perbene

Creato il 30 gennaio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il gennaio 30, 2012 | TEATRO | Autore: Laura Cavallaro

Una piccola realtà, Pozzuoli anni ‘50, fa da sfondo allo spettacolo “Grisù, Giuseppe e Maria” andato in scena al Teatro Brancati di Catania. La sagrestia di una chiesa è il luogo delle confessioni di due sorelle: donna Rosa (Franca Abategiovanni) sposata con tanto di prole e con il marito emigrato in Belgio per lavoro e donna Filomena (Sandra Caruso) agli occhi di tutti castigata ragazza di provincia. Rosa e Filomena essendo analfabete si recano spesso da Don Ciro (Paolo Triestino) per farsi leggere lettere private, così quest’ultimo viene a conoscenza di segreti “indicibili” delle sue povere pecorelle smarrite. Altra figura importante della commedia è quella di Vincenzo (Nicola Pistoia) neo-sacrestano con smanie di carriera e un po’ tardo d’intelletto. Quando donna Filomena andrà, supplichevole d’aiuto, da Don Ciro, per una gravidanza di dubbia paternità, quest’ultimo si dovrà prodigare per rimettere ogni cosa al suo posto. L’opera è firmata da Gianni Clementi, già noto al cartellone del Brancati (Ben Hur stagione 2010-2011) e prossimamente in scena con lo spettacolo “Sugo finto”. Autore contemporaneo tra i più rappresentati, promotore del dialetto romano sciolto dai pregiudizi che lo ancorano alle fiction e agli stornelli, in questa opera invece si avvale del napoletano, lingua che adora: «la storia che avevo in mente non poteva che svolgersi nel napoletano – spiega – con quei colori e quei suoni inconfondibili». Fondamentale l’assistenza dell’unica puteolana verace, Sandra Caruso, che ha avuto la funzione di coach, visto che i protagonisti sono due attori romani. Una bella sfida, ad esempio, per Nicola Pistoia che è riuscito a far convergere i ruoli di attore e di regista con straordinaria capacità. Il suo personaggio, zoppo e monco di mano, è certamente il più particolare e l’attore ha evitato magistralmente di farlo diventare una vera e propria macchietta. La sua è una comicità garbata, semplice, un servo di Dio che non sa cantare l’Alleluja e poi adempie malvolentieri ai suoi compiti intonando “Guaglione”. Un orfano cresciuto dalle suore e accolto da Don Ciro con estrema carità e che lo ispirerà per la carriera di prete. Paolo Triestino, invece, veste i panni di un prete laico, estremamente moderno per quel contesto, ma allo stesso tempo, disposto a tutto pur di salvare le apparenze dagli scandali innescati dalla sua parrocchiana.

Il teatro di Clementi è reale e concreto; la vicenda comica ha anche dei tratti estremamente luttuosi nel suo ricordare la tragedia di Marcinelle (Belgio): l’8 agosto 1956 un incendio si propaga dal pozzo centrale della miniera di carbone, 262 minatori su 274 perdono la vita, 136 sono italiani. Il Grisù che campeggia nel titolo non è altro che un gas inodore e incolore presente nelle miniere di carbone e zolfo. Gli accenti grotteschi della povertà e della disperazione si hanno nel monologo ad inizio secondo atto di donna Rosa, la poveretta, rimasta vedova, racconta l’esperienza del viaggio per i funerali del marito come un evento “in” (“Pè ‘a primma vota dint’a vita me songo sentuta importante”). Ma non può abbandonarsi al dolore Rosa, che ha l’urgenza di sei bocche da sfamare. La sua riverenza nei confronti del benessere e del denaro si percepisce nitidamente: il figlio maggiore viene chiamato come calciatore a Milano, un vero sogno che si realizza, un sogno ad occhi aperti per l’Italia del dopoguerra, in anni di ricostruzione e anche di estrema miseria, ma lei preferisce fargli fare il mestiere di venditore di gelati all’ippodromo, per averlo vicino e, forse, per paura. Eppure tale svolta porterebbe davvero ad un riscatto sociale per tutta la famiglia, ma Rosa e il figlio si accontentano di una sofferta licenza elementare, ottenuta con il supporto di Don Ciro che ha fatto da intermediario con il direttore della scuola. Rosa è completamente disillusa sulle aspettative di vita della sua famiglia, sente come se tutto quel possibile benessere non le fosse dovuto, e questo nonostante la tragedia che l’ha colpita. In questo caso più che in altri è una magra consolazione quel misero pezzo di carta, vista la fine che toccherà al giovane ragazzo destinato ad una esistenza di rinunce. Sulle spalle di donna Rosa grava anche il peso di un nuovo bambino in arrivo oltre alla responsabilità di accudire anche il figlio illegittimo della sorella. Don Ciro intanto pattuisce con il presunto padre di quest’ultimo bambino, il farmacista interpretato da Diego Gueci, una mensilità che servirà a mantenere la creatura. Donna Rosa accetta di buon grado la proposta del prete perché sospetta che il piccolo sia in realtà frutto di una relazione tra la sorella e il marito da poco scomparso. E come in ogni commedia degli equivoci che si rispetti, mentre Don Ciro crede di essere riuscito a mantenere integro l’onore della sua parrocchiana, il finale a sorpresa ci rivela che il padre del nascituro non è nessuno dei due sospettati. Le donne di questa commedia vivono la loro sessualità in modo libero, soprattutto Filomena che non manca di concedersi continue scappatelle, salvo poi temere lo scandalo in un’Italia probabilmente non troppo diversa da quella dei nostri giorni, ma anche pronta ad accettare con una certa dose di ingenuità colossali bugie spacciate per verità. Ed è così che donna Rosa si ritrova madre di due gemelli, uno bianco e l’altro nero (“Isacco e Grisù, ’na mela e nu piezzo ‘e carbone”): un “fatto” che nessuno mette in discussione. In conclusione, uno spettacolo dalle tinte delicate che quattro magnifici attori conducono in porto con incredibile bravura.

Per gli scatti inseriti in questo articolo si ringrazia il Teatro Brancati di Catania



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