Nessun gruppo è riuscito a dare nuova linfa a questo genere musicale, nato e cresciuto negli anni ’90, attraverso le musiche dei Nirvana, dei Melvins, dei Bush, dei Pearl Jam, dei Soundgarden, degli Stone Temple Pilots, dei Silverchair, degli Alice in Chains, dei Temple of the Dog, dei Mother Love Bone. Questi sono i gruppi che hanno dato vita alla vera essenza del grunge e con la morte di Kurt si è spenta un’epoca musicale. Dal 1994 in poi, tutti questi gruppi – metà di loro si sono sciolti poco tempo dopo – hanno intrapreso carriere musicali più soft, più melodiche, meno aggressive, allontanandosi da uno stile di vita e di pensiero, creato e generato dalla musica di Seattle degli anni’ 90.
Lo stile grunge ha formato generazioni intere di giovani, esiliati dalla società e dai suoi ritmi veloci e assurdi di quegli anni, dell’epoca degli yuppies e del boom economico. Uno stile che si è ispirato al punk del decennio precedente ma ha saputo trasformare le sue ideologie troppo estremiste e assurde, in un coro di potreste e di insoddisfazione che potesse essere accolto e compreso da tutti. Il genere grunge comunicava rabbia attraverso riff e assolo di chitarra rimasti indelebili nella storia musicale e attraverso testi pregni di sofferenza. Quella era vera sofferenza e vera rabbia.
Kurt Cobain, Layne Stanley degli Alice in Chains, Andrew Wood dei MotherLove Bone, sono diventate icone grunge, purtroppo lasciandoci prematuramente e creando dei vuoti artistici incolmabili.
Sentiamo la mancanza di quella musica che ha dato la possibilità di staccarci da quel rock oramai standardizzato degli anni ’80, regalandoci un respiro e dandoci soprattutto un’alternativa, proponendo un nuovo sound più duro ma distante anni luce dalla volgarità del punk e dall’inquietudine del metal.
Nella sua lettera di addio, Kurt cita Neil Young e dice: “Meglio bruciare in fretta, che spegnersi lentamente”: il grunge si è bruciato in un attimo, prima che potesse essere ripetitivo, scadente e commercializzato. Uno dei pochissimi ad essersi sottratto al meccanismo sociale di banalizzazione dei fenomeni.
Federico Trevisani