In un recente saggio sulla memoria, lo studioso Paul Connerton dimostra come istituzionalizzare il ricordo favorisca, in realtà, la sua dimenticanza. Delegando a feste, monumenti e anniversari il compito di tenere in vita un’opera, una persona o un anniversario, ognuno di noi è legittimato a dimenticare, liberando tempo ed energie da dedicare al business e alla perversa macchina di produzione, crescita, saturazione del mercato e recessione.
Come sentirsi di nuovo e per sempre uomini, allora?
La Storia, come tutte le altre discipline, ormai assorbe e livella, riassume e formatta non più soltanto la vita di popoli e nazioni ma addirittura di intere macroaree del Pianeta, come l’Occidente e l’Oriente, frustrando la sola unità di misura possibile: l’individuo.
La riduzione in formule, infatti, è anche una standardizzazione dei singoli, incapaci ormai di appartenere e di appartenersi. Restano allora le storie, che siano vere o inventate, il racconto e la letteratura a testimoniare il nostro veloce passaggio sulla Terra.
Shakespeare, in uno dei suoi più noti drammi d’amore, sottolinea che per lasciare una traccia indelebile di humanitas bastano “due ore di rappresentazione” sulla scena di Romeo e Giuletta.
Nella sua Guerra d’amore, Maria Teresa Cipri, giunta al suo terzo romanzo, rilancia il paradosso della con-vivenza esemplificando la polarità degli opposti, che è sempre una ricchezza, partendo dal suo nucleo familiare: «Salvatore e Peppina, presi separatamente e avulsi dalla loro personale guerra d’amore, erano quel che si dice due brave persone. Personalità eccentriche e singolari per l’epoca alla quale appartenevano, di intelligenza superiore alla media, fisicamente belli e prestanti. Originari dello stesso sperduto paese della Calabria, forse lontanissimi parenti e, causa principale dell’inizio delle ostilità, nessun Cupido munito di arco e frecce che si era mai sognato di scoccare nella loro direzione il classico dardo fiammeggiante a forma di cuore. Se ciò fosse avvenuto, tra un duello e l’altro, se ne sarebbero sicuramente ricordati».
Un padre devoto alla conoscenza, incrollabile studioso di arte e letteratura, faticosamente coltivate all’ombra della povertà degli inizi del ’900, e una madre, figlia invece di una mentalità pragmatica e conservatrice, legata al frutto della terra e del lavoro, non riescono a trovare un linguaggio comune, innescando continuamente attriti e discussioni. Con piglio divertito e divertente, l’autrice recupera il suo personale ricordo, asimmetrico, parziale, empirico e frammentario quanto si vuole, ma proprio per questo squisitamente umano, ricostruendo, allo stesso tempo, atmosfere fedeli di un’Italia ormai rilegata in brossura.
Sì, perché Guerra d’amore tesse e recupera la Storia (artistica, letteraria, sociale e culturale) proprio grazie alle storie di gente comune, alla fatica dello stare insieme e alla necessità di negoziare armistizi e ritirate strategiche per il bene comune della famiglia. Così, parola dopo parola, la scrittura di Maria Teresa Cipri si fa scultura in rilievo, monumento di un ricordo unico e indelebile che nessuna disciplina potrà mai archiviare: l’amore.
Roberto Di Pietro