Praticato ufficialmente fino al XIX secolo tra i nativi americani della costa settentrionale del Pacifico, reso illegale dal Canada e dagli Stati Uniti, celebrato clandestinamente e rivendicato dai nativi a colpi di petizioni fino ai giorni nostri, il rito del Potlach chiarisce come gli impulsi collaborativi convivano con quelli distruttivi nei confronti dell’altro. In questo rito complesso, celebrato in occasione di eventi di rilevanza sociale, il capo tribù organizzatore invitava i membri delle altre tribù a una festa che durava più giorni, in cui, accanto agli abbondanti banchetti, venivano distribuiti doni agli invitati. Il capo tribù, per dimostrare il suo potere e la sua ricchezza, arrivava a distruggere beni importanti del villaggio, persino a bruciare le capanne. Le tribù ospiti erano obbligate a organizzare a loro volta un Potlach alla prima occasione e se non riuscivano a rispondere adeguatamente perdevano il rango agli occhi degli altri. Un tale sistema portava a un’escalation di dimostrazioni di potenza che sovente degenerava in scontri tra le diverse tribù. In pratica, un rito probabilmente nato per cementare la fratellanza tra le tribù, si è trasformato col tempo in una competizione di generosità che fatalmente non poteva trovare altro sfogo che nel conflitto.
L’istinto all’aggressione, alla sopraffazione è insito nell’uomo ed è possibile tentare di incanalarlo con l’educazione, ma non si può pensare di cancellarlo: è un baratro che starà sempre al fianco del cammino dell’uomo e per evitarlo bisogna conoscerlo, non far finta che non esista. Altra cosa è la cultura della guerra, il militarismo, generatosi quando dagli sporadici scontri per la sopravvivenza degli uomini del Paleolitico si passò alla competizione tra comunità profondamente diverse,: agricoltori e nomadi. I comfort dei villaggi agricoli, la possibilità di conservare le eccedenze, la ricchezza delle espressioni artistiche e culturali dovettero esercitare grande fascino sui nomadi, tanto da spingerli a conquistare i villaggi. Di contro, gli agricoltori dovettero organizzarsi per difendersi dagli assalti. A mio parere, qui sta la nascita del militarismo, dell’applicazione sistematica delle conoscenze agli scopi bellici, della trasformazione della guerra da istintiva a culturale. L’aggressività insita nell’uomo venne incanalata in organizzazioni militari allo scopo di conquista o difesa del territorio. Successivamente, il potere fece leva su ideologie religiose o nazionaliste, ma anche sulla proiezione epica degli eventi bellici, per giustificare la militarizzazione della società come necessaria per l’affermazione e la salvaguardia dei valori identitari della comunità.
L’evoluzione militare è proseguita lentamente per millenni, sempre in risposta alle necessità di difesa o di aggressione dei popoli. Gli indoeuropei che invasero il bacino del Mediterraneo all’inizio del II millennio a.C. fecero un salto di qualità nella tecnica bellica, con aristocrazie militari ben organizzate e l’applicazione sempre più specifica della tecnologia. Un’altra escalation militarista venne innescata dalla diffusione della polvere da sparo inventata dai cinesi. Solo nel novecento, con l’impiego militare dell’aviazione e l’evoluzione degli armamenti atomici, la guerra assunse un carattere apocalittico, con la possibilità di annientare intere popolazioni senza dover ricorrerere a estenuanti combattimenti. Un punto di non ritorno che ha costretto l’umanità a un ripensamento di tutti quegli elementi culturali – fanatismo ideologico nazionalista o religioso, estetizzazione ed epicizzazione della guerra – che hanno alimentato il militarismo nel corso dei secoli, fino alla spirale apocalittica del novecento. La cultura militarista è talmente radicata, diffusa e frammentata da rendere estremamente difficoltosa la sua estirpazione, ma solo da una sistematica lotta nei suoi confronti, piuttosto che da un utopistico e ingenuo pacifismo, ci si può attendere una più stabile pacificazione tra i popoli della terra.