Guerra e pace (Libro I, parte III, cap. III) – Lev Tolstoj

Creato il 01 febbraio 2014 da Maxscorda @MaxScorda

1 febbraio 2014 Lascia un commento

Nel dicembre del 1805 il vecchio principe Nikolaj Andreeviè Bolkonskij ricevette una lettera dal principe Vasilij, il quale lo informava del suo arrivo in compagnia del figlio. («Sono in viaggio per un’ispezione, e, naturalmente, cento verste non mi sgomentano, quando si tratta di venire a farvi visita, mio amato benefattore,» scriveva. «Il mio Anatol’, che va a raggiungere il suo reggimento, mi accompagnerà, e io spero che voi gli consentirete di esprimervi di persona quel profondo rispetto che, a somiglianza del padre, anch’egli nutre per voi.»)
   «Ecco, non c’è nemmeno bisogno di portar Mar’ja in società: sono i fidanzati a venire di loro iniziativa.» Disse imprudentemente la piccola principessa, quando ebbe udita la notizia.
   Nikolaj Andreeviè si accigliò e non disse nulla.
   Due settimane dopo la lettera, una sera arrivarono i domestici del principe Vasilij, e il giorno dopo il principe in persona accompagnato dal figlio.
   Il principe Bolkonskij aveva sempre avuto scarsa opinione del principe Vasilij, e questo giudizio s’era ancor più deteriorato negli ultimi tempi, dopo che il principe Vasilij, sotto il nuovo regno dell’imperatore Paolo e poi dell’imperatore Alessandro, era andato molto avanti nei gradi e negli onori. Adesso poi, dagli accenni contenuti nella lettera e dalle parole della piccola principessa, aveva capito dove stava il punto, e nell’anima del principe Nikolaj Andreeviè l’opinione negativa del principe Vasilij s’era trasformata in un sentimento di malevolo disprezzo. Quando parlava di lui non faceva che sbuffare. Il giorno fissato per l’arrivo del principe Vasilij, Nikolaj Andreeviè era particolarmente contrariato e di cattivo umore. Fosse di cattivo umore per l’arrivo del principe Vasilij o fosse particolarmente contrariato dell’arrivo del principe Vasilij perché era di cattivo umore, fatto sta che era di cattivo umore; e Tichon fin dal mattino aveva sconsigliato l’architetto di presentarsi a rapporto dal principe.
   «Sentite come cammina,» disse Tichon, facendo notare all’architetto il rumore dei passi del principe. «Quando appoggia forte su tutto il tallone, sappiamo già…»

   Tuttavia, come d’abitudine, alle dieci il principe uscì per la passeggiata col suo cappotto di velluto foderato di pelliccia, col bavero e il berretto di zibellino. Il giorno prima era nevicato. Il viottolo sul quale il principe Nikolaj Andreeviè camminava in direzione della serra era stato spazzato; si scorgevano i segni della scopa sulla neve rimossa di fresco, e una pala era infissa sul soffice rialzo di neve che correva lungo il viottolo da entrambi i lati. Il principe fece il giro delle serre, del cortile e delle nuove costruzioni, sempre accigliato e silenzioso.
   «Ma in slitta si può passare?» domandò all’amministratore che lo accompagnò fino a casa: un uomo dignitoso, che nel volto e nei modi assomigliava al padrone.
   «La neve è alta, eccellenza. Ho già dato l’ordine di spazzare il viale.»
   Il principe chinò il capo e si avvicinò all’ingresso. «Grazie a Dio,» pensò l’amministratore, «la nube s’è dileguata!»
   «Era difficile passare, eccellenza,» aggiunse l’amministratore. «A quanto ho sentito, un ministro viene a trovare l’eccellenza vostra, vero?»
   Il principe Bolkonskij si voltò verso l’amministratore e lo fissò con la fronte aggrottata.
   «Che cosa? Un ministro? Che ministro? Chi ha dato l’ordine? prese a dire con la sua voce dura e penetrante. Non per la principessina, per mia figlia, hanno spalato, ma per il ministro! Per me non ci sono ministri!»
   «Eccellenza, io credevo…»
   «Tu credevi!» si mise a gridare il vecchio principe, pronunciando le parole a ritmo sempre più affrettato e sconnesso. «Tu credevi… Banditi! Canaglie!… Ti insegnerò io a credere.» E, brandendo il suo bastone, lo sollevò sopra Alpatyè, e lo avrebbe colpito se l’amministratore istintivamente non avesse scansato il colpo. «Tu credevi, eh?… Canaglia!…» gridava precipitosamente. Ma sebbene Alpatyè, spaventato egli stesso per il suo ardire nell’aver scansato il colpo, si fosse avvicinato al principe, chinando mansuetamente davanti a lui la sua testa calva, o forse proprio per questo, il principe continuò a gridare: «Canaglie!… Ricoprite la strada con la neve!» Ma rinunciò a sollevare un’altra volta il bastone e corse dentro casa.
   Prima di pranzo, la principessina e M.lle Bourienne, avendo saputo che il principe era di cattivo umore, lo aspettarono stando in piedi. M.lle Bourienne aveva un viso raggiante che diceva: «Io non so niente, io sono quella di sempre», mentre la principessina Mar’ja era pallida, spaventata, e teneva gli occhi a terra. La cosa più penosa, per la principessina Mar’ja, era il sapere che in questi casi bisognava comportarsi come M.lle Bourienne, ma lei non ci riusciva. Pensava: «Se facessi finta di non accorgermene, lui potrebbe pensare che non partecipo ai suoi affanni; se invece mostrassi di essere anch’io triste e di cattivo umore, lui direbbe (come altre volte era successo), che ho una faccia da funerale, eccetera eccetera.»
   Il principe guardò la faccia impaurita di sua figlia e sbuffò. «Canagl… oppure una stupida!» disse.
   «E l’altra non c’è! Anche con lei si saranno già messi a spettegolare,» pensò, riferendosi alla piccola principessa che non era in sala da pranzo.
   «E la principessa dov’è?» domandò. «Si nasconde?…»
   «Non sta tanto bene,» disse M.lle Bourienne sorridendo gaiamente, «non scende. Bisogna compartirla: nelle sue condizioni…»
   «Hmm! hmm! ch!… ch!» borbottò il principe, e sedette a tavola.
   Disse che il piatto era sporco; mostrò una macchia e lo gettò via. Tichon lo afferrò al volo e lo passò al dispensiere. La piccola principessa non si sentiva male, ma aveva un’invincibile paura del suocero. Così avendo saputo che era di cattivo umore, aveva deciso di non scendere.
   «Ho paura per il bambino,» aveva detto a M.lle Bourienne, «solo Dio sa cosa mi può succedere, a causa di uno spavento.»
   La piccola principessa viveva a Lysye Gory continuamente ossessionata dalla paura e dall’antipatia per il vecchio principe: un’antipatia di cui non si rendeva nemmeno conto, perché la paura la dominava a tal punto che lei non l’avvertiva nemmeno. Il principe, a sua volta, provava antipatia per la nuora ma essa veniva soffocata dal disprezzo. La principessa, una volta abituatasi a Lysye Gory, s’era particolarmente affezionata a M.lle Bourienne; passava le giornate insieme a lei, la pregava di tenerle compagnia di notte e spesso le parlava del suocero, criticandolo.
   «Il nous arrive du monde, mon prince,» disse M.lle Bourienne aprendo il bianco tovagliolo con le sue mani rosee. «Son excellence le prince Kouraguine avec son fils, à ce que j’ai entendu dire? » disse in tono interrogativo.
   «Hmm… questa excellence è un furbacchione… l’ho fatto assumere io in un ministero,» rispose il principe con aria risentita. «Perché, poi, viene anche il figlio, non riesco a capirlo. Può darsi che la principessa Lizaveta Karlovna e la principessina Mar’ja lo sappiano; ma io ignoro perché si trascini appresso anche suo figlio. Non so proprio che farmene.» E il principe guardò sua figlia che era arrossita.
   «Non stai bene, forse? Per paura del ministro, come ha detto oggi quel farabutto di Alpatyè?»
   «No, mon père.»
   Per quanto M.lle Bourienne avesse scelto a sproposito il tema della conversazione, ella non desistette, e prese a chiacchierare delle serre, della bellezza dei nuovi fiori che erano sbocciati, cosicché il principe dopo la minestra si ammansì un poco.
   Dopo il pranzo si recò dalla nuora. La piccola principessa sedeva davanti a un tavolinetto e chiacchierava con Maša, la cameriera. Vedendo il suocero si fece pallida.
   La piccola principessa era molto cambiata. Appariva piuttosto brutta che bella, adesso. Le guance erano flosce, il labbro superiore era più rialzato, le palpebre erano gonfie.
   «Sì, un certo peso,» rispose al principe che le domandava che cosa si sentisse.
   «Ti serve qualcosa?»
   «No, merci, mon père.»
   «Bene, bene.»
   Uscì e raggiunse l’office, attiguo alla sala da pranzo. Alpatyè era in piedi in mezzo alla stanza, con la testa china.
   «È stata ricoperta la strada?»
   «Sì, eccellenza, sì. Perdonate, per amor di Dio, è stato solo per sbadataggine…»
   Il principe lo interruppe e scoppiò nella sua risata innaturale.
   «Bene, bene.»
   Porse la mano, che Alpatyè baciò; e poi andò nel suo studio.
   Il principe Vasilij arrivò quella sera. Fu ricevuto sul viale d’ingresso dai cocchieri e dai camerieri che con molte grida accompagnarono lungo la strada sulla quale di proposito era stata sparsa di nuovo la neve, la carrozza su pattini che recava i bagagli e la sua slitta sino a un’ala della casa.
   Al principe Vasilij e ad Anatol’ furono assegnati due appartamenti separati.
   Anatol’, levatosi il panciotto, se ne stava seduto con le mani sui fianchi davanti a una tavola, su un angolo della quale egli, sorridendo, posava distrattamente i suoi grandi e begli occhi. Egli guardava a tutta la sua vita come a un divertimento ininterrotto, che qualcuno per qualche ragione s’era impegnato a organizzare per lui; e tale, anche ora, egli considerava quella sua visita in casa di quel vecchio arcigno e della ricca e brutta ereditiera. Tutto questo, secondo le sue previsioni, poteva riuscire assai bello e perfino divertente. «E perché non sposarla dopotutto, se è davvero così ricca? I denari non guastano mai,» pensava Anatol’.
   Si fece la barba, si profumò con quella cura e quell’eleganza che per lui era ormai un’abitudine, e con l’espressione, in lui innata, di un bonario trionfo, tenendo alta la bella testa entrò nella camera del padre. Attorno al principe Vasilij si davano da fare i suoi due camerieri intenti a vestirlo; anch’egli si guardava attorno con aria vivace, e lietamente fece un cenno del capo al figlio che entrava, quasi dicesse: «Sì, mi occorre che tu sia così!»
   «Senza scherzi, babbo, è davvero così brutta?» domandò Anatol’ in francese come riprendendo un argomento già toccato più d’una volta durante il viaggio.
   «Smettila di dir sciocchezze! E soprattutto cerca di essere rispettoso e deferente col vecchio principe.»
   «Se quello si mette a sbraitare, io me ne vado,» disse Anatol’. «Io, questi vecchi non li posso sopportare. Siamo intesi?»
   «Ricordati che per te tutto dipende da questo.»
   In quel frattempo, nelle stanze delle cameriere non soltanto si sapeva dell’arrivo di un ministro con il figlio, ma il loro aspetto era già stato minutamente descritto. La principessina Mar’ja era sola nella sua stanza e si sforzava invano di vincere la propria interna agitazione.
   «Perché hanno scritto, perché Lise me ne ha parlato? È una cosa impossibile!» ripeteva a se stessa guardandosi nello specchio. «Come farò a entrare in salotto? Se anche mi piacesse, non potrei essere con lui quella che sono adesso.» Il solo pensiero dello sguardo di suo padre la colmava di terrore.
   La piccola principessa e M.lle Bourienne avevano già avuto da Maša, la cameriera, tutti i necessari ragguagli sul figlio del ministro, che era un bel giovane dalle guance accese e dalle nere sopracciglia, e sul padre, che aveva trascinato a stento le gambe su per le scale, e ancora sul figlio, che gli era corso dietro come un’aquila, facendo tre gradini alla volta. Avute queste informazioni, la piccola principessa e M.lle Bourienne, facendo udire già dal corridoio le loro voci che conversavano animatamente, entrarono nella camera della principessina.
   «Ils sont arrivés, Marie, lo sapete?» disse la piccola principessa dondolando a causa del suo ventre appesantito e lasciandosi cadere in una poltrona.
   Ella non indossava più la blusa che portava quel mattino, ma uno dei suoi abiti più belli; i capelli erano acconciati con cura e il suo viso esprimeva un’animazione, che tuttavia non bastava a nascondere i lineamenti smorti e alterati. Con quella toilette che era usa indossare quando frequentava il bel mondo di Pietroburgo, si notava ancor più quanto fosse imbruttita. Anche l’abbigliamento di M.lle Bourienne mostrava un lieve miglioramento, e questo conferiva un’attrattiva ancor maggiore al suo viso fresco e grazioso.
   «Eh bien, et vous restez comme vous êtes, chère princesse?» disse. «On va venir annoncer que ces messieurs sont au salon; il faudra descendre, et vous ne faites pas un petit brin de toilette?»
   La piccola principessa si alzò dalla poltrona, suonò per chiamare la cameriera, e piena di allegria si accinse a escogitare una toilette per la principessina Mar’ja e a metterla in esecuzione. La principessina Mar’ja si sentiva offesa nel suo sentimento di dignità personale per il fatto che l’arrivo di quel suo «promesso» la emozionasse tanto, e ancor più offesa che le sue amiche non concepissero neppure che potesse essere altrimenti. Confessare quanto si vergognava di sé e di loro avrebbe significato tradire la propria emozione; inoltre, rifiutando di indossare la toilette che le proponevano, avrebbe dato luogo a celie e a insistenze piuttosto prolungate. Si fece di fiamma, i suoi magnifici occhi si spensero, la faccia si coprì di macchie e, con quella brutta espressione da vittima che tanto spesso affiorava sul suo volto, ella si abbandonò nelle mani di M.lle Bourienne e di Lise. Le due donne si adoprarono con assoluta sincerità per farla bella. Era così brutta che nessuna delle due poteva certo vedere in lei una rivale; perciò del tutto sinceramente, con quella ingenua e ferma convinzione femminile che l’acconciatura possa rendere bella una persona, si accinsero a vestirla.
   «No, davvero, ma bonne amie, questo vestito non è bello,» disse Lise, squadrando di lontano la principessina, «ordina che ti portino il tuo vestito color granata. Pensa che forse oggi si decide il destino della tua vita. Questo è troppo chiaro, non va bene; no, non va bene!»
   Ciò che non andava bene non era l’abito, ma il volto e tutta la figura della principessina; ma di questo M.lle Bourienne e la piccola principessa non si rendevano conto. A loro sembrava che, aggiungendo un nastro celeste ai capelli pettinati all’insù, e cingendo di una fascia celeste l’abito marrone, tutto si sarebbe aggiustato. Dimenticavano che quel viso spaventato e quella figura non potevano mutare, e perciò, per quanto modificassero la cornice e l’ornamento, il viso restava misero e brutto. Dopo due o tre varianti alle quali la principessina si sottomise con docilità, quando fu pettinata all’insù (un’acconciatura che palesemente alterava e sciupava il suo viso), con la sciarpa celeste e l’abito da ricevimento color granata, la piccola principessa le girò intorno due volte, accomodò con la sua piccola mano una piega dell’abito, diede una tiratina alla sciarpa e, chinando la testa, esaminò la cognata ora da un lato, ora dall’altro.
   «No, così non va,» disse con decisione e batté le mani. «Non Marie, décidément ça ne vous va pas. Je vous aime mieux dans votre petite robe grise de tous les jours. Non, de grâce, faites cela pour moi. Katja,» disse poi alla cameriera, «porta alla principessina l’abito grigio; vedrete, M.lle Bourienne, accomoderò tutto io,» aggiunse con un sorriso che pregustava una gioia d’artista.
   Quando Katja portò l’abito richiesto, la principessina Mar’ja era ancora seduta immobile davanti allo specchio; guardava il proprio volto, e vedeva nello specchio i suoi occhi pieni di lacrime e la bocca che le tremava, prossima a prorompere in singhiozzi.
   «Voyons, chère princesse,» disse M.lle Bourienne, «encore un petit effort.»
   Lise prese l’abito dalle mani della cameriera e si avvicinò alla principessina Mar’ja.
   La voce di lei, di M.lle Bourienne e di Katja, la quale s’era messa a ridere di qualcosa, si fondevano in un gaio chiacchiericcio simile al cinguettio degli uccellini.
   «Non, laissez-moi,» disse la principessina.
   Nella sua voce c’erano tanta serietà e tanta sofferenza, che il cinguettio degli uccelli subito tacque. Videro che i suoi grandi, bellissimi occhi erano pensierosi e pieni di lacrime, e che guardavano verso di loro con espressione limpida e supplichevole. Capirono che insistere era inutile e perfino crudele.
   «Au moins changez de coiffure,» disse la piccola principessa. «Je vous disais,» disse poi, rivolgendosi in tono di rimprovero a M.lle Bourienne, «Marie a une de ces figures, auxquelles ce genre de coiffure ne va pas du tout. Mais du tout, du tout. Changez, de grâce .»
   «Laissez-moi, laissez-moi, tout ça m’est parfaitement égal,» mormorò una voce che tratteneva a stento le lacrime.
   M.lle Bourienne e la piccola principessa dovettero riconoscere in cuor loro che quell’abbigliamento imbruttiva la principessina Mar’ja, la rendeva più brutta del solito; ma ormai era tardi. Essa le guardava con quella espressione mesta e pensosa che ben conoscevano. Quell’espressione non suscitava in loro alcun timore (la principessina non suscitava questo sentimento in nessuno); ma sapevano che quando quell’espressione appariva sul suo viso, lei diventava taciturna e incrollabile nelle sue decisioni.
   «Vous changerez, n’est-ce pas?» disse Lise; poi, siccome la principessina Mar’ja non le rispondeva, uscì.
   La principessina Mar’ja rimase sola. Non soddisfece il desiderio di Lise, e non soltanto rinunciò a mutar pettinatura, ma non si guardò nemmeno allo specchio.
   Sedeva in silenzio, con gli occhi assorti e le braccia abbandonate lungo il corpo, e pensava. Si immaginava un marito, un uomo forte, un dominatore e, per qualche incomprensibile ragione, attraente, che d’un tratto la trasportasse in un suo mondo felice, diverso. Si immaginava, attaccato al seno, un bambino suo, come quello che aveva visto il giorno prima alla figlia della balia.
   Il marito le stava accanto, e guardava con tenerezza lei e il bambino. «Ma no, è impossibile, io sono troppo brutta,» pensò.
   «Il tè è servito. Il principe verrà subito,» disse dietro la porta la voce della cameriera.
   Lei si riscosse e rimase atterrita di ciò che pensava. Prima di scendere, si alzò, entrò nella stanza delle icone, e fissando lo sguardo sul volto annerito della grande immagine del Salvatore illuminata dalla lampada, vi sostò alcuni minuti con le mani giunte. Nell’anima della principessina Mar’ja c’era un dubbio tormentoso. Per lei era possibile la gioia dell’amore, dell’amore profano per un uomo? Pensando al matrimonio la principessina Mar’ja sognava la felicità familiare e i figli, ma il suo sogno dominante, il più forte e il più segreto, era l’amore terreno. Questo sentimento era tanto più forte quanto più essa si sforzava di celarlo agli altri e persino a se stessa. «Dio mio,» si diceva, «come posso soffocare dentro il mio cuore questi pensieri del demonio! Come posso reprimere per sempre questi pensieri malefici e adempiere solo alla tua volontà?» Questa domanda era appena formulata che Dio le rispondeva nel suo stesso cuore: «Non desiderare nulla per te; non cercare, non agitarti, non invidiare. L’avvenire delle persone e il tuo destino ti debbono essere ignoti; ma vivi in modo da essere pronta a tutto. Se a Dio piacerà provarti nei doveri del matrimonio, sii pronta ad adempiere la sua volontà.» Con questo tranquillante pensiero (ma pur sempre con la speranza che si adempisse il suo proibito sogno terreno) la principessina Mar’ja si fece sospirando il segno della croce e scese in salone, senza pensare né al proprio abito, né alla pettinatura, né a come sarebbe entrata e che cosa avrebbe detto. Che importanza poteva avere tutto ciò rispetto a quello che Dio ha disposto, senza il cui volere non cade neppure un capello dalla testa di un uomo?


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