Eppure, proprio mentre mi incateno a un dovere verso me stesso, quello di far spazio a qualcosa che mi risulta - ahinoi - abbastanza estraneo, mi accorgo della mia naturale predisposizione all'ingenuità. Non parlo certo di qualche rossore o di pudica reticenza (anzi, al contrario), parlo di una lettura spudorata e dell'abbandono. Un abbandono senza filtri, un rifiuto - se si vuole - di ogni costruzione consapevole. Nonostante gli errori, credo che questo sia l'approccio ideale, l'altro e più importante punto di non ritorno, quello che fa di una persona "un lettore" oppure non lo fa. Perché un incontro diretto e personale con il testo fa sì che molto, moltissimo sfugga, ma non l'impronta, l'impressione, la voglia di trovare in sé delle risposte fondamentali.
Questo è però il risultato più difficile che si possa chiedere alla scuola, a un insegnante: imprimere qualcosa, imprimere la voglia di superare il disallineamento e talvolta anche la noia con la lettura (e, sì, se posso dirlo, la sensazione che in quel libro ci sia qualcosa di "sbagliato"), di indagare in questa propria incomprensione. E ancora una volta ringrazio i miei professori che mi hanno insegnato tante cose e che mi hanno regalato l'ingenuità per sbarazzarmene davanti alla meraviglia della letteratura.