Guida ai falsi miti – 1: La fotografia "pura".

Da Alxcoghephotographer

È dai tempi della diffusione su larga scala della fotografia digitale, quindi diciamo approssimativamente a partire dagli anni 2000-2001, che fra alcune schiere di fotografi, particolarmente affezionati alle loro macchine analogiche e alle emulsioni fotografiche, iniziò a diffondersi una particolare convinzione: che la allora emergente fotografia digitale, in qualche modo non fosse “pura” e che non potesse essere considerata degna di affiancare i metodi fotografici già esistenti, in quanto troppo compromessa con l'elaborazione grafica computerizzata. Insomma, quella digitale, per alcuni, non è “vera” fotografia: non è “scrivere con la luce”, ma è semplicemente “scrivere con i pixel”, quindi non ha parità tecnica né artistica con la fotografia “tradizionale”, che invece rispetta procedimenti esclusivamente fotografici e onorati da lunghissima e secolare tradizione.

Secondo costoro, insomma, nascosta da qualche parte, esiste una non meglio identificata fotografia “pura”, ovvero la possibilità di svolgere un atto fotografico incontaminato, che non passa attraverso pratiche volgari come la la scansione, il salvataggio su memorie elettroniche o, peggio di tutte, l'elaborazione digitale: la fotografia “pura” sarebbe ottenibile solamente impressionando emulsioni fotografiche. Nonostante sia passato più di un decennio dalla diffusione del digitale, tale credenza sembra essere ancora ben radicata in certi circoli amatoriali, nei negozi di fotografia, presso i laboratori dei fotoriparatori e in altri posti simili. Succede a volte persino anche in rete, laddove il digitale ha ovviamente un successo schiacciante sull'analogico.

Ebbene, gli amanti della fotografia, sia chimca (o argentica, come dicono delicatamente i francesi) che digitale, dovrebbero ricordare che, fin dai suoi albori, l'atto fotografico di per sé non è mai stato tanto puro e incontaminato. Anzi, tutto il processo fotografico, dalla fase di ripresa fino alla stampa e alla presentazione finale, per propria natura è sempre stato un percorso di scelte ben precise, in cui l'elaborazione in più passaggi dell'immagine è necessaria per l'ottenimento del risultato.

Fin dai tempi di Niépce e di Daguerre, infatti, il fotografo si è sempre dovuto confrontare con almeno 3 fasi:

  1. Scelta del materiale sensibile (bitume di Giudea, lastra di rame esposta ai vapori di mercurio, emulsione di sali d'argento, etc.)
  2. Ripresa (che implica a sua volta la scelta del mezzo fotografico con cui operare, il che richederebbe un'analisi a parte)
  3. Stampa

Tutto il percorso, dalla scelta del materiale sensibile fino alla stampa, implica che il fotografo agisca direttamente sul processo per ottenere il risultato desiderato. Se non agisce, ovvero se non effettua scelte, semplicemente il prcesso non va avanti e l'immagine fotografica non può prendere forma. Quindi, ad un certo punto, il fotografo deve scegliere come vorrà presentare la propria immagine e questo ovviamente implicherà l'applicazione di metodi differenti a seconda della sensibilità e del gusto dell'operatore. In particolare la fase di stampa, che conclude il lavoro e rende la fotografia un oggetto tangibile e fruibile al pubblico, è il momento in cui più si fanno sentire le scelte fatte dal fotografo – o comunque di chi per lui stampa. In questa fase, infatti, lo stampatore deve come minimo decidere il contrasto della carta, il che rappresenta una scelta estetica cruciale, per non parlare di reinquadrature, ingrandimenti, inclinazioni, etc.

Come è ben noto a chi si applica in camera oscura, in fase di stampa si potevano e si possono modificare le immagini e se ne possono salvare moltissimi difetti. Del resto, fin dai primi giorni nella storia della fotografia, si sono evoluti diverse metodologie per migliorare l'immagine finale e le tecniche di stampa sono sempre state caratterizzate da differenti approcci di ritocco. Pur non esistendo Photoshop o Camera Raw, i fotografi, dalla fine dell'Ottocento in avanti, non solo correggevano i difetti fotografici di esposizione o di inquadratura, ma agivano sistematicamente in postproduzione (come la chiamiamo noi oggi) e miglioravano i ritratti dei loro clienti, coloravano i panorami enascondevano i difetti più vari delle loro foto con raschietti, matite e pennelli. E il viraggio, così diffuso fino alla metà del secolo scorso? Non era forse una falsificazione rispetto alla “pura” stampa in scala di grigio dei sali d'argento? In camera oscura si è poi giunti a tecniche ancora più estreme, come ad esempio la stampa differenziale, l'utilizzo di maschere e di vetri, fino alla solarizzazione e altri metodi ancora più spinti. Eppure nessuno, che io sappia, si è mai scandalizzato più di tanto fino all'avvento delle fotocamere digitali, che evidentemente hanno avuto l'effetto di riaprire un dibattito mai sopito fra fotoamatori e professionisti. Tuttavia, questo atteggiamento di sfiducia verso le nuove tecnologie è di ordine puramente psicologico e non sembra avere a che fare con la realtà delle cose.

La fotografia digitale, sostanzialmente, non è diversa da quella chimica: implica sempre le tre fasi di ripresa, impressione del materiale sensibile (che in questo caso è una superficie di elementi elettronici e non di molecole) e stampa. Anche in fotografia digitale si fanno scelte, che possono essere buone o cattive, belle o brutte, ma non più né meno di quanto accadesse con l'uso delle pellicole. Semplicemente, anziché fare le proprie valutazioni sotto una luce di sicurezza rossa o verdastra, le si fanno alla luce, davanti ad un monitor, magari riuscendo anche a bere un caffé, cosa che invece non era consigliabile fare in camera oscura.

Cos'è dunque la fotografia “vera”? Cosa possiamo considerare “puro”, o magari “fotograficamente corretto”? Esiste una tradizione fotografica “ortodossa”? Se si, ha senso seguirla?

Bisogna considerare che la fotografia prima di tutto è un'idea del fotografo. Questa idea, come abbiamo visto, senza le scelte operate dal fotografo stesso non può essere concretizzata in immagine, perché il processo semplicemente non p andare avanti. Quindi ad un certo punto bisogna decidere come esporre il materiale sensibile, bisogna decidere che contrasto usare per la stampa, bisogna decidere se stampare tutto il fotogramma o soltato una parte, e così via. Ciascuna scelta cambia il risultato finale, che ci piaccia o no, e di conseguenza come possiamo stabilire quale sia la via “più corretta” o “più pura” per raggiungere il risultato?Cosa importa se l'immagine finale è stata ottenuta in 3, 5, 10 o 100 passaggi? Se il ritocco fotografico è sempre esistito, fin dai suoi albori, perché scandalizzarsi adesso di fronte alle tecniche di ritocco digitale?

La logica conclusione è che non esiste alcuna “fotografia pura”, non esiste lo “scatto assoluto”, perché il processo fotografico è sempre e comunque un processo relativo. Non c'è nulla di incontaminato: l'immagine fotografica è il frutto di una serie di passaggi unici e unidirezionali che implicano una serie di scelte ben precise da parte del fotografo, ciascuna delle quali influenzano in modo decisivo il risultato finale.

Non si potrebbe mai scattare "in purezza" nemmeno con una semplice camera stenopeica, perché come minimo dovremmo scegliere di che grandezza fare il foro e la lunghezza focale della camera, per noi parlare del materiale da impressionare e della successiva stampa.

Come si raggiunga il risultato finale, poco importa, è solo una questione contingente: di gusti, di momento storico, se vogliamo anche di possibilità economiche. Quello che importa davvero è l'ottenimento di un'imagine con un senso artistico compiuto.

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