E’ inutile girarci attorno. Quando la nazionale italiana è stata cacciata a calci dal Mondiale, siamo rimasti in pochi a seguirlo. Tifosi occasionali, accidentali, platee di curiosoni, professionisti del dedicare attenzione fuggevole a ciò che va di moda, sono già scomparsi. Siamo rimasti noi, i tifosi veri, a cercare di capire che senso abbia seguire una manifestazione nella quale la squadra per cui tifavi non c’è più. Qualche motivo c’è ancora, ed è bene soffermarcisi su:
1) Il vero amante del calcio
Alcuni di noi vogliono semplicemente godersi del calcio di ottimo livello. Sappiamo bene che da settembre ci toccherà di gustare posticipi del calibro di Zozzanese – Cialtronia, dunque ci attacchiamo a questa manciata di partite come i vacanzieri si attaccano agli ultimi giorni d’estate, cercando di cogliere disperatamente altri attimi di beatitudine calcistica. E’ inutile dire che io faccio parte di questa categoria solo in parte. Come si sarà facilmente evinto, il calcio non scatena il buono e il giusto che è in me, non mi eleva per nulla, non mi rende più nobile o più degno. Se voglio fare l’esteta del gesto sportivo, ci sono pacchi di sport più belli, eleganti, divertenti da osservare in tv. No, per me il calcio è stomaco, intestino, budella, è uno sport sporco e cattivo, profondamente antisportivo, giocato da loschi figuri scorretti fino alla recita quando non alla truffa e alla rissa, e tifato da gibboni che si battono il petto mangiando una banana. Dunque non sono qui per veder belle partite di calcio, e che vinca il migliore.
2) Il gufo
Beh, qua ci siamo. Molti di noi guarderanno le restanti partite tifando contro la squadra che gli sta più sulle balle. Alcuni di noi, romanticoni, tiferanno per favolette di periferia o di riscatto, tipo che vince il Ghana o il Giappone. Poveri illusi. Il calcio è uno sport conservatore, tradizionalista, che non tollera novità o ribaltamento dell’aristocrazia calcistica. Non si è mai visto che vinca una squadra non europea o non sudamericana, nè una outsider o una cenerentola, nè mai si vedrà. Dunque chi sprecherà il suo tifo per vedere trionfare i carneadi slovacchi, ghanesi, giapponesi o paraguayani alzare la coppa, meglio che passi le sue serate di inizio estate guardando le ennesime repliche di Don Camillo su rete 4. Vi dovete ficcare in testa che un mondiale di calcio, come qualunque campionato nazionale, è come un esame o un concorso. Non vince il merito. Vince la furbizia, l’inganno, la truffa, la scorciatoia, il culo. Sopratutto il culo. Quindi è bene tifare contro, prendersi la soddisfazione di vedere gli inglesi andare a casa umiliati, o i padroni americani beffati dai padri di chi gli coltivava il cotone a gratis. O guardare una partita in cui detesti entrambe le tifoserie, tipo Inghilterra e Germania, e tifare per una ahimè improbabile invasione di locuste nello stadio, che si cibino avide delle carni dei crucchi e degli albionici senza preferenza. Vedete, una partita di calcio è come una serata a Risiko. Ringalluzzisce il tuo sentimento nazionalista, il tuo odio per il cosmopolitismo, la tua brama di nuove invalicabili cortine di ferro. E dunque tiferò contro la Spagna, anzitutto. Il mio corrispondente da Barcelona, il buon fratello Pfaff, mi dice che sono praticamente pronti a festeggiare la conquista della coppa, sono talmente esaltati e sboroni da avere una sicurezza bullesca di vincere, e di vincere giocando “bonito”. Vederli in lacrime dopo una sconfitta all’ultimo minuto per autogol non fuorigioco dell’arbitro sarebbe davvero una goduria che da sola vale la pena di continuare a seguire il mondiale.
Non avrei nulla contro l’Argentina, se non che è allenata da un personaggio detestabile, che per di più prima di ogni partita sgrana un rosario a mò di tirapugni, e fa decine di segni della croce e suppliche al cielo, che ti chiedi ma santa madonna quanto è idiota chiedere a dio di far vincere la tua squadra? A parte che per chi crede nel potere magico delle preghiere, occorrerebbe le preservasse per qualcosa di meno stupido; ma anche se fosse, che idea ha Maradona di dio? Un dio argentino, di sangue indio-italiano-spagnolo, che punisce i messicani o poi i tedeschi e poi i brasiliani per fare un piacere all’improbabile allenatore della formazione bianco-celeste, che magari si crede un profeta scelto da dio stesso? Cosa crede di fare, Maradona con quel rosario stretto sui pugni a ferirsi le nocche? A questo punto non escludo che nello spogliatoio non abbia una bella bambolina vodoo con le sembianze dell’avversario martoriata dagli spilloni, e che la sera prima abbia sacrificato alcuni animali in via di estinzione per procacciarsi la vittoria, oppure per scorgere nelle loro interiora i segni inequivocabili della predestinazione. Posso io tifare per una squadra che ha un allenatore-stregone? Giammai, spero che cadano alla prossima coi i crucchi e quel clown in giacca e cravatta per la delusione ingolli come un oca il suo rosario capendo d’un botto che la superstizione non paga mai.
3) Il tifo per la seconda patria.
Se qualcuno di noi ha un genitore straniero, o anche qualche lontano parente estero, si attaccherà alle radici alternative per tifare senza troppi sforzi succedanei la sua patria mancata. Ma se non ha nemmeno quello, deve scorgere dentro di sè una reale empatia verso un’altra nazione, altrimenti non gli rimane che gufare.
Beh, io questa nazione ce l’ho, ed ho scelto senza indugio per chi tifare. Portogallo.
Perchè è l’unico posto in cui ho viaggiato in cui mi sono innamorato di tutto. Dei luoghi, del colore dei monasteri, delle atmosfere western dei confini con la spagna, dell’oceano pescoso e di quelle barchette di legno verniciate di fresco nei porticciuoli, delle leggende dei naufragi e della vera saudade, quell’inspiegabile sentimento che puoi intuire ma non capire, dei mercati del pesce in ogni buco di paesino. Del sorriso gentile della stragrande maggioranza delle persone che ho incontrato da Oporto fino a Lisbona, dei modi discreti ma attenti, della mancanza di invadenza e indolenza tutta mediterranea, della loro lingua che è così facile da leggere e così impossibile da ascoltare, del loro pesce cucinato in ogni modo e pagato poco, del loro vinho verde e della ginginha bevuta al tramonto vicino a Marques Pombal assieme ai sessantenni della capitale. Perchè Lisbona è il posto dove andrei a vivere se avessi quindici anni di meno o se ne avessi trenta di più. Perchè una città che sale e che scende senza posa, perchè cambia architettura e colori ogni mezzo quartiere, perchè chiude i negozi quando ne ha voglia e perchè nei bar delle piazze della Baixa il caffè è come il nostro e costa la metà. Perchè parli con la gente anche se non capisci nulla di quello che ti stanno dicendo. E perchè i dolci più buoni del mondo sono ad un quarto d’ora di bus, a Belem, alle foci del Tago. I pasteis de nata.
Ecco perchè tiferò Portogallo.
Nonostante Cristiano Ronaldo.