Guido Galdini, IL DISORDINE DELLE STANZE, poesie 1979 – 2011, puntoacapo 2012
Alcune considerazioni, leggendo questa opera prima di Guido Galdini: che la poesia non appartenga tutto al nostro tempo lo conferma l’intuizione che
poesia é svegliarsi dal confuso sonno,
e nel buio di nuovo stupirsi
delle parole che si fanno compagnia;
(quindi)
poeta é chi attende,
con la pazienza dei venti,
all’opera che darà, col suo riposo,
agli assopiti, sempre una nuova insonnia.
p 23
Niente strepito, dunque, ma un lento scrivere e un lento guardare, tanto che, scrivendo un canzoniere ininterrotto, nell’arco di piú di trent’anni, Galdini ci suggerisce indirettamente come sia possibile annullare le distanze tra modi di far poesia, scuole di pensiero, storicizzazioni, diatribe, misere battaglie e altrettanto miseri accerchiamenti, imparando a percepire il tempo nel suo lento fluire, restituendo a ogni cosa la sua vera natura di Nulla.
Che cosa rimane, allora, in un’ottica in cui il problema dello stile non é la risultante di una veduta, di un compromesso culturale? Rimane l’endecasillabo, cioé quella dimensione del “ragionar guardando” che ha attraversato tutta la nostra migliore letteratura, e non ci puó essere altro verso piú adatto a segnalare questo rallentamento:
perché la luce i suoi profumi gli orti
ti si ribellano fino all’accecamento?
dirli li hai detti, come se bastassero
ad esaurire l’estate i tuoi endecasillabi.
p 25
Galdini, insomma, frequenta un classicismo fuori dal tempo – ma forse proprio per questo piú sottomesso – dipinge molte poesie en plain air, osservando bene i cambiamenti della luce e i leggeri mutamenti dell’animo:
fidiamo in marzo piovoso e lungo
di vento sulle guglie, l’anno
scrolla le nevi, scioglie le perplesse danze,
strappa il volto alle maschere,
ci disperde nei vicoli inattesi.
p 24
Nessuna divisione in sezioni, ma un fluire del tempo della poesia come un diario che delle cose voglia nominare, soprattutto, una discreta quiete, e uno sfiorire, uno sfaldarsi “dei petali sotto il pennello”.
Che Galdini faccia riferimento a una quiete estraniante, a un pessimismo supportato solo dalla constatazione che “vivo nell’attimo dello sgregolamento”, ce lo dice questa reinvenzione a partire dal grande viaggio di Baudelaire, in cui le navi della conoscenza si acquietano, infine, in un porto di silenzio e luce aurorale:
abbandonati alla luce iperborea,
che ci fa credere d’essere piú vicini,
l’isola bianca, oltre le querce e il sole,
dove s’addormenta tutto ció che non esiste.
p 32
Nel ragionamento costante che attraversa queste poesie – bellissimi, per esempio, questi frammenti: “il buio é un’altra forma della luce…il tempo é un turbine ferito…ció di cui non si puó parlare, si deve sognare…ció che credevo essere un inizio/era solo l’inizio del tramonto” – si avverte la buia costanza del tempo a dissimulare la veritá, a cancellare qualcosa che la parola cerca invece di portare alla luce. Ed é un compito che si puó immaginare solo sottraendo la parola ai richiami del presente, prendendosi la responsabilitá dei propri fallimenti e dei lacerti di bellezza che ogni tanto ci capita di raccogliere per strada, fissandoli in una qualche forma di memoria.
Sebastiano Aglieco
Han sur Lesse
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