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Guido Mattioni: da Sandy alla Star and Stripes, vi racconto la mia America…..

Creato il 29 novembre 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

Guido Mattioni: da Sandy alla Star and Stripes, vi racconto la mia America…..di Guido Mattioni. Strana, la vita! Uno spende 35 dei suoi anni come giornalista inseguendo ogni giorno le notizie da un tavolo di redazione, oppure logorando suole e polpacci lungo le strade del mondo; e poi, una volta mandato in pensione anticipata, succede che le notizie gli piovano invece addosso – senza fare sforzi, senza costargli mal di testa o sudore – tutte in una volta. Perdipiù nel breve arco di due settimane americane verso le quali era partito con l’animo rilassato di chi se ne andava in una quasi vacanza con la sua dolce metà. Invece ha visto con i propri occhi di tutto, da vicino. Cose all’apparenza diverse e slegate l’una dall’altra, come scene del film di un regista impazzito. Slegate soltanto in apparenza, però… Dal guardare in faccia l’uragano Sandy che spegne e paralizza New York fino a renderla un inutile scatolone di cemento, vetro e acciaio, al vivere divertito, in un “covo” repubblicano, la rielezione con un largo quanto inatteso margine di un presidente dalla pelle scura (Dio mio se sta cambiando – e come, e con che passo – l’America!). Dal vedere il proprio romanzo d’esordio – lo stesso che alcuni altisonanti editori italiani non avevano degnato nemmeno di una lettura – adottato da un’università di Atlanta come strumento didattico per insegnare l’Italiano, all’incontro con una straordinaria e carismatica sindachessa afroamericana di una città ex schiavista del Sud, una tipa tosta che combatte per i diritti civili della sua gente da quando aveva nove anni. In mezzo, metteteci 1.500 e rotti chilometri in automobile, macinati per forza di cose in due giorni, attraverso le strade blu – quelle secondarie – di un’America bellissima, struggente, bucolica e ferma nel tempo. Un’America che tuttavia quasi nessuno vede mai, al di fuori di chi ci abita.

Sono io quel “uno”. Sono io quel giornalista (ancorchè prepensionato) e neo-romanziere. Miei sono gli occhi, ma soprattutto il cervello e il cuore, nei quali tutti questi fatti sono rimasti incisi, registrati in modo indelebile come su una traccia magnetica. Miei, ormai, sono anche i 1.500 e rotti chilometri attraverso quell’America “altra”, rispetto ai luoghi comuni e alle banalizzazioni saccenti di chi magari in America non ha mai nemmeno messo piede. Se volete, se ne avete la pazienza (non posso pretendere l’interesse) ve li racconto nell’unico modo che so fare, così come avrei fatto ai tempi in cui mi logoravo suole e polpacci senza guardare mai l’orologio, ma ringraziando ogni giorno il cielo per la fortuna che mi era stata data, ovvero quella di poter campare facendo il lavoro che amavo di più (e che continuo ad amare). Il solo lavoro che perdipiù so fare: scrivere.

Il fil rouge e bleu – diamine, qui si parla d’America, un banale filo rosso non mi bastava! – che lega nella mia mente una congerie apparentemente disordinata ed eteorgenea di eventi, inizia a dipanarsi il 27 ottobre scorso, quando metto piede per la quarantatreesima volta nella mia vita sul suolo degli Stati Uniti. Ovvero: 43 moduli doganali compilati sul tavolinetto dell’aereo; 43 code percorse passo dopo passo, a zigo-zago, in attesa del primo addetto all’Immigration che si libera; 43 litanie di domande subìte, sempre uguali; 43 serie di mie risposte date e ormai imparate a memoria; 43 liberatori colpi di timbro sul passaporto; 43 sorridenti “Enjoy your stay” e infine 43 passaggi sotto quel bandierone a stelle e strisce che mi conferma ancora una volta: “Sei arrivato”.

Sì, arrivato nella Home of the Brave per alcuni e nella cloaca del Capitalismo imperialista per altri; in una Nazione che ha infiniti difetti e altrettanti pregi; in un Paese che milioni di ex poveri ed ex oppressi di ogni parte del mondo ora amano per riconoscenza e che altrettanti milioni di attuali poveri ed oppressi (dai loro governi) di ogni parte del mondo odiano di tutto cuore per fede o per ideologia. Eppure, a me che questa terra la amo pur conoscendone i difetti uno a uno, quella bandiera sotto la quale passo uscendo dall’aeroporto per entrare così a pieno titolo in America, ricorda sempre come questo bizzarro Paese che si nutre di paradossi abbia proprio in quel simbolo il più straordinario dei suoi paradossi. Perché questo è l’unico Paese al mondo dove bruciare o calpestare pubblicamente la bandiera nazionale – la stessa che qui garrisce 365 giorni all’anno davanti a ogni casa e che si venera fin dalle elementari, mano sul cuore e saluto, perché accidenti è così che si diventa Nazione e si smette di essere soltanto un popolo! – non è punibile come reato in quanto viene considerata libera e legittima manifestazione del proprio pensiero.

Appunto, la bandiera. È lei il filo rosso e blu di cui dicevo, perché quel drappo lo ritrovi a ogni angolo di strada, in America. Ti accompagna, ti guida, ti indica la via, sia che tu ti trovi tra le fattorie “cristallizzate” nel bucolico passato remoto del Vermont, sia che tu passeggi su e giù nella modernità urbana di Manhattan. Io, infatti, vi ho “passeggiato” parecchio, a fianco di mia moglie, il giorno dopo l’arrivo: 4 miglia buone, più o meno 7 chilometri, diritti come fusi a Sud, ma a passo lento, dal civico 67 West sulla 44esima strada (grazie a Dio lì resiste il vecchio e fortunatamente immutato Red Flame Diner, che spadella forse le più buone pancakes al maple syrup di Manhattan, il “carburante” che ci voleva per affrontare quella camminata) fino a Ground Zero. Sì, a piedi, perché è solo così che puoi goderti i mille volti umani di New York così come i mille musi impertinenti dei suoi scoiattoli grigi. La mia intenzione era quella di rendere omaggio, almeno da sotto, a un nuovo simbolo: alla “Star and Stripes” che in questo momento sventola più in alto di tutta New York e allo stesso tempo nel più profondo dei cuori di tutti gli americani, ovvero al 104° e ultimo piano della non ancora ultimata Freedom Tower, il titanico monolite cresciuto sul grande vuoto lasciato dalle due torri del World Trade Center, cancellate dai barbari l’11 settembre del 2001. Quella bandiera sventola lassù, a 1776 piedi di altezza (1776 non come un numero a caso, ma come l’anno della Dichiarazione di Indipendenza), ovvero a 541 metri, 108 di più rispetto al vecchio Empire State Building.

Non sembrava sotto assedio, New York. Era domenica mattina, il 28 ottobre scorso. Sì, il probabile arrivo di un nemico era annunciato, ma non aveva un nome islamico. Si chiamava innocentemente Sandy, era nata come tutte le tempeste tropicali nelle acque calde del Golfo e stava risalendo da giorni al largo della sponda orientale, seguendo però una rotta assolutamente insolita rispetto a quelle che percorrono di norma gli uragani, quei “cattivi ragazzi” che da giugno a fine ottobre, quando arriva la loro stagione, oltre che con la Florida finiscono on il prendersela quasi sempre con le zone costiere del South e del North Carolina, specie con gli abitanti di quella cittadina che non a caso ha finito per darsi il nome di Cape Fear, il promontorio della paura. Sandy, classificata forza uno su una scala di cinque, quindi poco più di una tempesta tropicale, era finita fuori strada per via di quel fenomeno chiamato Global Warming (il ghiaccio ai poli si è ridotto, alterando millenari equilibri) che sta mandando a farsi benedire tutte le cose un tempo certe del clima. E mentre gli staff dei grandi network televisivi mettevano a punto le grandi mappe digitali del Paese che di lì a qualche giorno, nella diretta della kermesse elettorale si sarebbero tinte Stato per Stato di rosso e di blu (rispettivamente i colori di repubblicani e democratici, ecco il filo bicolore che ritorna), proprio il candidato repubblicano Mitt Romney, individuo anelastico come può esserlo soltanto un repubblicano, e perdipiù mormone, sfoderava in favore delle telecamere il lavoro del suo dentista ostinandosi a sostenere che il riscaldamento del pianeta è soltanto una ubbia da liberal. Infatti si è visto. Glielo vada a ripetere, Romney, ai poveretti rimasti a mollo e senza casa a Staten Island, il borough più misero, sfigato e sotto il livello del mare di tutta New York City.

Comunque la città, quella mattina, pur risuonando già delle sirene dei mezzi di soccorso e del pronto intervento che andavano a disclocarsi precauzionalmente nei punti chiave di Manhattan, sembrava non crederci molto alla pericolosità di Sandy. “È solo di forza uno, e che sarà mai? Al massimo un forte temporale”, sembrava dirsi e dirti la gente. Così, mentre il sindaco Michael Bloomberg lanciava in tv i suoi inviti alla prudenza in inglese, ripetendoli poi in un buffo spagnolo, la vita proseguiva come prosegue sempre – anche di domenica – in the City that never sleeps. Cioè modelle in equilibrio precario sui loro tacchi a trampoli con bicchieroni di caffè bollente in una mano e il cellulare nell’altra che si aggiravano tra i loft modaioli del Garment District; famiglie bene con bambini in cappottino blu e cani al seguito a passeggio in una Washington Square allietata dalle note incrociate di un sax afroamericano e di un mandolino italiano; ormai stagionati negozianti “alternativi” di abiti etnici e usati al Village, sorridenti oltre motivo sulle porte delle loro botteghe impregnate (ecco spiegato l’eccesso di sorriso!) di uno strano sentore di fumo “erbaceo”, camerieri e cuochi d’ogni razza indaffarati nelle cucine dei ristorantini di Bleecker Street.

Qualcosa di diverso comunque c’era, volendo prestarci attenzione. Qualcuno sembrava iniziare a prendere scaramanticamente per buoni gli appelli di Bloomberg: sacchi di sabbia venivano ammassati qua e là contro le porte delle boutique; tavole di legno o anche soltanto lunghe strisce di grosso nastro adesivo venivano inchiodate oppure incollate a protezione delle vetrine; “iniezioni” di schiuma sigillante venivano stese lungo i bordi delle botole apribili metalliche che dai marciapiedi portano nei magazzini sotterranei. Tutto sempre incrociando però soltanto gran sorrisi e alzate di spalle, come in un corale, convinto e scaramantico “Non si sa mai, tanto non costa nulla…”. Intanto, la gente continuava a entrare a mani vuote e a uscire carica dei primi sacchi di saldi dal Century 21 di Cortland Street, nel Financial District, proprio sotto la scintillante Freedom Tower.

Tutto davvero così normale? Non proprio: di colpo, intorno a noi, tanti cellulari portati alle orecchie, sguardi che scrutavano verso l’alto, in cielo, e poi subito dopo in giro, come a cercare qualcosa. Ed ecco una processione che si infilava senza fretta, senza panico, ma sempre più folta in quei “qualcosa”, ovvero gli ingressi della metropolitana. Mi era bastato chiedere. La bruttina dall’aria in apparenza acida, tutta licchettata in tacco 12, cappottino Burberry, taglio di capelli e trucco perfetto “in odore” di Wall Street, più Ipad stretto nella destra esageratamente ungulata, mi aveva risposto invece gentile, per nulla acida: “Se dovete ritornare in Downtown o se state in qualche quartiere fuori città, fate meglio ad affrettarvi, hanno appena detto in tv che la metropolitana verrà chiusa precauzionalmente stasera alle 7. Have fun!”, aveva anche aggiunto, ottimisticamente newyorkese. Precauzione inutile, quella di affrettarsi, almeno a giudicare da come si sarebbe poi dipanata quella notte! Manhattan era rimasta infatti in grande spolvero, frenetica come al solito pur se battuta da un vento gelido che non sembrava fare tuttavia grande paura alle ragazze “svestite” da odalische o ai tanti maschioni muscolosi e pelosi addobbati da Drag Queen che si incrociavano sui marciapiedi. I ristoranti, le steak house e i locali erano pieni. Non c’era la metropolitana, era vero, ma i taxi andavano a tutto spiano perché Halloween è Halloween e “quando arriva, arriva”.

Già, ma poi, accompagnata da quel vento che si faceva sempre più forte e minaccioso è arrivata anche Sandy. Ci ha messo tutto il giorno successivo prima di farsi sentire, continuando a crescere di dimensione – un anello di nubi spaventoso, a giudicare dalle animazioni del Weather Channel – e a caricarsi d’acqua e di umidità a forza di girovagare sull’Oceano ancora indecisa sul da farsi. Aveva anche spezzato come un grissino, forse per avvertimento, il braccio di una gigantesca gru, lasciandolo paurosamente a penzoloni come un missile rivolto verso il basso. Puntato al cuore di Manhattan. Ergo: quattro isolati e un grande albergo da evacuare, emergenza sull’emergenza. Poi, mi era arrivata una telefonata: la presentazione del mio romanzo alla Learn Italy School, attesa per mesi, era stata annullata per forza maggiore. Cancellata anche l’installazione Art for Environment dello scultore e amico Andrea Rusin, nell’East River Park, dove avrei dovuto leggere alcune pagine del mio libro. Sempre meno sorrisi in giro – compreso il mio – sempre meno ottimismo ostentato, sempre più annunci di Bloomberg ascoltati da cima a fondo, anche quelli nel suo buffo spagnolo, e tante “donne gatto” seminude che correvano precipitosamente a casa intirizzite – “taaaaxiiii!” – con le loro finte code tra le gambe. Io non ero vestito da gatto, ma la coda tra le gambe ce l’avevo, eccome se ce l’avevo. Più filosofo di me, in quanto costretto dalla vita ad esserlo, un barbone si era preparato il giaciglio sul piccolo pianerottolo rialzato – fuori dal rischio di una eventuale ondata – di una elegante brownstone house del centro, sede di un club esclusivo ovviamente sbarrato. Grande stratega! Sopra di lui il tendalino verde – icona del lusso newyorkese – lo avrebbe protetto dalla pioggia.

Poi, tutto in una notte. Noi eravamo lì a seguire l’arrivo di Sandy in diretta tv dalla nostra stanza d’albergo al 15° piano, guardando e ascoltanto le inviate dei grandi network (la Notizia è donna, in America!) schiaffeggiate dal vento e dalla pioggia mentre gridavano le notizie nei loro microfoni. Le guardavamo e le ascoltavamo, sentivamo fischiare Sandy minacciosa al di là dei vetri della camera, vedevamo sullo schermo al plasma la marea salire e invadere le strade di Staten Island e del New Jersey, eppure io mi ritrovavo a chiedermi mentalmente, da incorreggibile “italiano-a-New-York”, se all’indomani avrebbero aperto oppure no il mega emporio della Apple perché l’Ipad mi aveva piantato e non prendeva più il collegamento wifi. Poi, d’un tratto, l’immagine sullo schermo al plasma aveva iniziato a pulsare, a tremare, così come la luce… Un attimo, ed eravamo piombati nel buio più totale. Silenzio.

Incredulo, avevo guardato fuori cercando di riconoscere una New York come non l’avevo mai vista prima e che con tutta la fantasia di questo mondo non avrei mai nemmeno immaginato: era buia come un’astronave alla deriva nello spazio, meteorite errabondo senza più carburante atomico, ma con le sue bandierone a stelle e strisce – il filo rosso e blu… – che sventolavano nel buio sotto la rabbia di Sandy, “lei” e “loro” uniche cose ancora vive. Dietro i vetri del palazzo di fronte qualche barlume di torcia elettrica e il fuoco quasi fatuo di una candela. Immaginavo le imprecazioni, gli accidenti di dolore per gli spigoli materializzatisi all’improvviso – e duramente – di fronte alle ginocchia. Imprecazioni, accidenti e dolori del tutto identici ai miei. Poi, un gracchiare nel buio e la voce di un responsabile dell’hotel: “Ci spiace per l’inconveniente, restate nelle camere, ci sono le luci di emergenza solo sui pianerottoli e sulle scale, cercheremo di fare al più presto per ripristinare la corrente, forse domani”. Un uso del futuro (“cercheremo”), un’approssimazione (“al più presto”) e una vaghezza (“forse”) che mi avevano fatto sentire quasi a casa, in Italia.

La mattina dopo, il quadro era decisamente desolante: niente elettricità, il miracolo non c’era stato. Di conseguenza niente news, niente riscaldamento, niente acqua né fredda né calda, niente sciacquone dal momento che anche l’acqua ha bisogno di corrente per salire fino al 15° pian… “cazz…, non funziona nemmeno l’ascensore!”. Lungo le interminabili rampe perrcorse in discesa verso qualcosa da mettere sotto ai denti e cercando di dimenticare che ci sarebbe stato con tutta probabilità anche un ritorno in salita, avevamo incrociato facce presumibilmente stranite come le nostre e idiomi di ogni dove, tutti su e giù con i bicchieroni di Starbucks in mano, in quella Babele a gradini dipinta chissà perché di arancione. Poi quattro blocks a piedi, quattro isolati percorsi in mezzo a saracinesche tutte abbassate, ma con almeno una speranza nel cuore – lì la corrente c’era – e l’acquolina in bocca. Invece, grande delusione! Anche il mio adorato Red Flame Diner aveva chiuso i battenti, arresosi molto probabilmente per mancanza di personale così come quasi tutti gli esercizi commerciali dato che commessi, cuochi e camerieri non possono certamente permettersi di vivere né sulla Park Avenue né in qualsiasi altra strada di Manhattan. Per noi, né le pancakes né i french toast tanto sognati. Per loro, poveretti, era senz’altro molto peggio: acqua alle ginocchia e fango da spalare via dalle loro case di Staten Island o del South Bronx.

Era martedì e la Fifth Avenue era irriconoscibile: una strada fantasma in una città fantasma, popolata perlopiù da turisti italiani vestiti come figurini e con lo sguardo disperato che gridavano negli Iphone (ormai non c’è un connazionale senza Iphone) a parenti e amici lontani: “No, non te lo posso comprare, qui è tutto chiuso, anche l’Emporio Armani!!!”. Perché sì, l’italiano-a-New-York è di un gender davvero straordinario, unico al mondo: vola per nove ore fino a Manhattan, se ne fa almeno una all’immigration per poi mettersi in coda e fare acquisti di capi italiani. Inutile suggerirgli che ci sarebbe di meglio da fare, come magari andarsi a vedere Matisse, Mantegna o Van Gogh alla Frick Collection. Inutile perché a parte un prevedibile “Matisse, chi?”, quella mattina a essere chiusi erano anche i musei, Frick Collection compresa. Chiuso perfino Tiffany (come l’avrebbe presa Audrey Hepburn, aka Holly Golightly, senza vetrina dove specchiarsi facendo colazione?), l’unico business rimasto aperto era quello della fede: la Cattedrale di San Patrizio.

Era martedì e… e accidenti, io giovedì pomeriggio ero atteso ad Atlanta, giù in Georgia, per presentare il mio romanzo alla Georgia State University. Non potevo perdere anche quell’occasione! I manifesti con la copertina e la mia faccia sorridente (pre-Sandy) erano affissi da due settimane in tutto il campus. Il professor Richard Keatley e i suoi studenti del corso di Italiano, riuniti nell’associazione I Giovani Colti (sì, ad Atlanta, in Georgia, non sto mica parlando di Roma o Milano!) mi aspettavano. L’aereo che avrei dovuto prendere giovedì mattina non sarebbe tuttavia mai più partito, non c’era speranza, dal momento che l’aeroporto La Guardia era ancora sott’acqua. Fuggire in auto? Certo, ma come, se New York in quel momento di cupe considerazioni era ritornata alla sua dimensione antica, quella di isola, quando lungo l’East River e l’Hudson navigavano soltanto le canoe dei suoi antichi proprietari, gli indiani Algonchini? Erano chiusi tutti i ponti e tutti i tunnel, non si entrava né si usciva. In condizioni così, mi restavano soltanto l’ottimismo della volontà (disperata, ma tale) e la sua figlia legittima: la Fortuna.

Un suo primo segnale, però: c’era una stazione Hertz, a soli cento metri dal mio hotel.

Secondo segnale: “Ho una prenotazione con voi da Atlanta, me la potreste anticipare già da qui?”, avevo domandato. “Certo, signore, le possiamo fare anche un upgrade gratuito di un suv, così viaggia più comodo”, aveva risposto l’addetto, un ragazzo dalla faccia sveglia e simpatica, smanettando in tre secondi la modifica del contratto al computer e sorridendo “ah… italiano, cumpà, mio nonno era di Calabria…” Ha proprio ragione David Letterman quando dice che New York è una città in mano agli italiani, agli ebrei e ai gay! Siamo e sono dovunque. Comunque, chiavi nel quadro, accensione, via che si va. Sì, ma dove? Per il momento potevo arrivare fino all’albergo, appena girato l’angolo, perché Manhattan era ancora un’isola.

Terzo segnale della fortuna. Era Federica – grazie finchè campo, Federica! – della Learn Italy School, che mi avvertiva al telefono: “Hanno appena riaperto il Lincoln Tunnel, è l’unico operativo”. Quindici piani in salita, a piedi, ma percorsi al volo. E poco dopo – giusto il tempo di chiudere i bagagli – altri quindici piani a piedi in discesa, ma con quattro valigie. Io le due grandi (una, quella di mia moglie, pesantissima, con abiti e scarpe bastanti a un corpo di ballo per quattro stagioni; l’altra, la mia, altrettanto pesantissima perché piena di altri abiti suoi e per metà di copie del romanzo, di segnalibri e altra carta). A lei, ovviamente, avevo lasciato le due piccole.

Quarto beneaugurante segnale in arrivo dal mio lato B: la strada dal nostro albergo all’imbocco del Lincoln tunnel, in una giornata di traffico newyorkese comprensibilmente più impazzito del solito, era per fortuna diritta come un fuso e tutto sommato breve, giusto il tempo di attraversare Manhattan tagliandola dal lato corto, facendo soltanto attenzione ai tanti semafori rimasti spenti e al numero – aumentato di colpo – di scooter e biciclette.

Un “tuffo” in quel budello piastrellato, due minuti di guida imponendomi di rispettare il limite ed ero dall’altra parte, in un New Jersey che sapevo però disastrato. Infatti, subito dopo il tunnel, la dritta via era sbarrata. Lungo la Interstate numero 78 che mi avrebbe dovuto portare diritto diritto verso Sudest, verso la Pennsylvania, per seguire poi la linea dei monti Appalachi evitando con un’ampia deviazione la più diretta 95 inondata nella zona attorno a Washington, non si poteva proseguire: uscita obbligata – “Go, Go, Go!” – intimata a forza di urla e di braccia da un gruppo di agenti comprensibilmente nervosi. Senza Gps a bordo (li avevano finiti, non si può pretendere troppo dalla fortuna!), con la sola cartina approssimativa dell’autonoleggio (i negozi dove poterne acquistare una erano tutti chiusi) non potevo che affidarmi al mio senso dell’orientamento e alle indicazioni della gente: “Go straigth, that way”. Ok, grazie, peccato che dopo un miglio “that way” fosse bloccata da una grande quercia caduta. Via da un’altra parte, allora, seguendo i cartelli che dicevano “detour” almeno fino a dove non lo dicevano più e dovevo tirare a indovinare. Ma mentre tiravo a indovinare facendo lo slalom tra radici d’albero, caterpillar in movimento e linee elettriche abbattute,  osservavo con ammirazione quella brava gente infangata lavorare a testa bassa, senza fiatare. Chi non aveva avuto danni era sul tetto del vicino, ad aiutare a sistemarlo. Altri volontari si davano da fare attorno a una chiesa – bene di tutti – rimasta un po’ sbilenca. Le donne in giro, con gli stivali, andavano e venivano dalle loro cucine portando fette di torta, panini e birre ai mariti e agli operai dei telefoni e della società elettrica. Eccola ancora, a due secoli dai tempi dei pionieri, la “filosofia” di sopravvivenza della carovana: tutti insieme e poi la sera dentro i carri messi a cerchio. Stavolta, però, contro un’indiana ventosa e bagnata, chiamata Sandy.

Tra un “detour” e l’altro, per uscire dal New Jersey mi ci erano però volute tre ore di “navigazione” a vista, forzatamente improvvisata, tra villette tutte uguali. Poi la Pennsylvania – lunga, verdissima, interminabile – un pezzo di Maryland, il poverissimo ma incantevole West Virginia, le valli della Virginia rese eternamente fertili dal mare di sangue fratricida versato nella Guerra Civile, il North Carolina, primo a ribellarsi contro Lincoln, la sua “sorella” del Sud e giovedì mattina ecco finalmente davanti ai miei occhi la Georgia, bella e invitante sotto un sole piacevolmente caldo. E quindi Atlanta, 1500 chilometri dopo.

Appunto, i 1500 chilometri e rotti di cui dicevo – pagine di un calendario da sogno, patinato – lungo i quali l’America che cinema e tv ti raccontano sempre come quella sospettosa, con la pistola a portata di mano, mi si è confermata invece per quella – ben altra – che già conoscevo bene. Quella dove l’automobilista fermo sul ciglio della strada a consultare la carta geografica (finalmente ne avevo potuto acquistare una) vede prima o poi materializzarsene accanto a sé un altro con la faccia per bene, proprio come la sua, che si ferma, abbassa il finestrino e gli chiede: “Bisogno di aiuto?”. Così, senza nemmeno dover chiedere. Appunto, 1500 chilometri attraverso un’America da film di Frank Capra, dove nei mille e mille villaggi che finiscono quasi sempre per “…ville” o per “…town” resistono ancora i family restaurant dall’arredo originale in fòrmica e finta pelle degli anni 60, immutato, dove stagionate cameriere dai capelli lilla ti chiamano “Dolcezza” e dove gli avventori dai capelli semplicemente bianchi possono scegliere ogni giorno tra due o tre zuppe calde, di quelle fatte in casa. Appunto, 1500 chilometri imprevisti, ma imprevedibilmente belli, in un’America rurale struggente, ferma nel tempo, che aveva conservato per noi – quasi ci attendesse – la livrea rossa e gialla dell’autunno. Un’America, infine, dove quel filo ideale, quello rosso e blu, il suo simbolo unificante, ha scandito uno a uno tutti quei 1500 chilometri.

L’ho trovata dovunque, la bandiera, perché in America la trovi sempre e dovunque: davanti alle case e nei cortili delle scuole, sulle cisterne cromate delle autobotti gonfie di latte o sul furgone del postino, sulla tuta del benzinaio e sulla porta a vetri del chiropratico lì accanto. Era perennemente lì, presente, ribadita carta d’identità di una Nazione e collante indiscusso di 300 e più milioni di uomini e donne invece diversissimi che continuano ad approdare da ogni angolo del mondo sulle sue sponde e che però non smettono di dividersi su tutto il resto: sull’aborto e sulla pena di morte, sul libero possesso delle armi e su quello della marjuana, sulla sanità pubblica da garantire a tutti e sull’eutanasia, sulle amanti dei politici e dei capi della Cia così come su quale sia il migliore dressing per condire un’insalata.

Trecento e più milioni di vecchi e nuovi americani che ovviamente si dividono ogni quattro anni anche sul rosso e sul blu, ovvero tra repubblicani e democratici.

“Stasera ci divertiamo, vi porto a cena in un covo del Grand Old Party”, ci aveva detto ridendo sotto i baffi il mio amico Rick. Era il 6 novembre, la sera dei risultati elettorali nella corsa alla Casa Bianca. Il “covo” era una elegante club house di un golf, una delle quattro club house nascoste tra gli alberi del lussuoso quartiere residenziale di Savannah (di fatto un’intera isola dalla vegetazione lasciata apposta fitta e selvaggia) dove Rick e sua moglie Sharon (obamiani convinti) abitano. Facce lunghe, quella sera, attorno ai pochi tavoli occupati. E facce visibilmente incazzate anche nella saletta del poker. I grandi televisori al plasma trasmettevano i risultati della diretta, ovviamente sintonizzati tutti esclusivamente sulla parzialissima e schieratissima Fox, indiscusso baluardo dell’informazione repubblicana. Ma mano a mano che la grande mappa digitale si andava colorando di blu – come l’asinello simbolo dei democratici – il rosso dell’elefante repubblicano sembrava sbiadire di pari passo con l’abbronzatura dei golfisti seduti davanti alle loro sirloin stake al sangue e con patate al forno. Colava invece, insieme al sudore, il cerone degli anchormen e delle anchorwomen di quel “galantuomo” di Rupert Murdoch fino a quando, accolto da un loffio “ohhh…” di delusione dei presenti e da un esclamativo “yeah!” soddisfatto di Rick, a pugno vibrante, è arrivato il risultato della Pennsylvania, uno degli Stati più popolosi: “Obama is in”, ha dovuto ammettere a denti stretti la Fox.

Obama aveva vinto, sia nel computo dei grandi elettori sia in quello dei voti percentuali. I due camerieri presenti in sala, entrambi dalla pelle color cioccolata, efficentissimi e veloci anche prima, avevano iniziato a superare se stessi. Direi che avevano inziato letteralmente a volare, lasciandosi dietro una scia sorridente di denti immacolati. Insieme a Obama avevano vinto anche loro, avevano vinto i miei amici benestanti ma illuminati, aveva vinto soprattutto questa nuova America dei diritti civili che sta diventando anno dopo anno maggioritaria, un passetto alla volta, ma senza fare mai passi indietro. È un’America economicamente sempre meno egoista, convinta che non si possa considerare la povertà una colpa e che ogni bambino o anziano disagiato abbia il diritto di ricevere le stesse cure di chi sta meglio di lui. È un’America sempre patriottica, ma meno guerrafondaia, stanca di fare il poliziotto del mondo e conscia che sia giunto il giorno in cui una bella fetta di spese militari dovrebbe essere investita nella sanità e nella scuola pubbliche. È un’America, anche repubblicana, che definisce ormai a voce alta una multinazionale come la Monsanto (alimenti Ogm) “una minaccia” per la salute pubblica. È un’America di uomini e donne etero che comprendono però come non si possa più negare il diritto di sposarsi a due persone dello stesso sesso che hanno avuto il bene di incontrarsi e di amarsi. È infine anche un’America sempre meno forcaiola, giunta a pensare che non si possano affollare le carceri (già stracolme) per voler punire qualcuno per l’uso di un po’ d’erba.

A un certo punto, però, tutto finisce: si esaurisce in un acquazzone che allaga tutto l’uragano Sandy, finiscono purtroppo quei 1500 chilometri di America da ricordare, si concludono una piacevole cena con amici in un golf club così come il caravanserraglio miliardario di una campagna elettorale che avrebbe potuto sfamare mezza Africa. Ed è finito ovviamente anche il mio 43° viaggio (ce ne saranno altri, però) oltre Oceano. Con un’ultima tappa, un ultimo volto sorridente incontrato e un’ultima stretta di mano. Il luogo: il municipio di Savannah. Il volto e la mano: quelli della signora Edna Jackson, da un anno sindaco della città, la bellissima ex località schiavista della Georgia – nonché sede della Borsa del cotone quando questa era la Wall Street dell’epoca – della quale sono assiduo visitatore dal 1991, cittadino onorario dal 1998 e innamorato perdutamente per sempre, al punto di avervi ambientato il mio primo romanzo, Whispering Tides (in italiano Ascoltavo le maree). Alla signora Jackson, pur senza conoscerla, avevo mandato una copia del libro in dono e lei mi aveva scritto pretendendo di incontrarmi in occasione del mio primo ritorno nella sua città.

Una marcata somiglianza fisica – totale invece nell’argento vivo addosso – con la cantante Aretha Franklin, Mrs Edna è un concentrato di irresistibile carisma, ha alle spalle una carriera da public servant nelle istituzioni amministrative e nell’università pubblica, ma soprattutto un impegno sociale nella battaglia per i diritti civili iniziato quando aveva appena nove anni – sì, solo 9 – iscrivendosi al NAACP, la National Assciation for the Advancement of Coloured People., proseguito nel 1963 da ragazza (aveva appena 19 anni) guidando il gruppo di Savannah fino a Washington ad ascoltare lo storico discorso “I have a dream” di Martin Luther King e ribadito nel 1965 prendendo parte a una ancor più storica pagina dell’emancipazione dei neri d’America, quella della marcia di protesta da Selma a Montgomery, in un Mississippi bianco e così ferocemente segregazionista da arrivare a pestare, linciare, uccidere. Viene insomma da lontano, Edna. E lontano guarda, verso un’America che vada anche oltre i traguardi di progresso sociale e civile raggiunti in quello che in fondo sarebbe un battito di ciglia – appena quarant’anni – se confrontato con i tempi della pachidermica storia europea. Ma quando si è trattato di chiederle di fare una fotografia insieme, lei non ha avuto esitazioni: “Vieni, facciamola qua, accanto alla bandiera. Io amo le fotografie con la nostra bandiera”. Sì, le Star and Stripes, quel filo rosso e blu. Che non è finito – come il mio viaggio o come la campagna elettorale – ma che continuerà a dipanarsi, a scorrere, ne sono certo, almeno fino a quando esisterà l’America.

 Featured image, Mrs Edna Jackson, source Guido Mattioni.

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