Chissà come festeggerà i suoi primi 50 anni Guillermo Del Toro, regista messicano originario di Guadalajara e ora residente a Los Angeles, dove, accanto alla residenza in cui convive con la moglie Lorenza e le figlie Mariana e Marisa e, possiede una casa-studio, ribattezzata “The Bleak House”, vero e proprio museo per cinefili, dove custodisce oltre settemila film, migliaia di libri (tutte prime edizioni rare) e memorabilia che farebbero impazzire qualsiasi collezionista, tra cui una statua a grandezza naturale dello scrittore Howard Phillips Lovecraft, sua fonte di ispirazione. Forse si regalerà un nuovo pezzo per la sua collezione, sicuramente festeggerà davanti a una tavola riccamente imbandita, lui che ha provato a essere vegano per quattro anni e poi ha ceduto, e che ha dichiarato di “non fidarsi dei registi troppo magri”. Per Del Toro la bulimia del corpo è seconda solo a quella dell'amore per il cinema e i mostri, passione che lo accompagna fin dalla tenera età: per sua stessa ammissione, da bambino aveva sogni lucidi in cui vedeva strane creature invadere la sua stanza: "La paura per quelle creature non mi faceva andare in bagno, tanto da farmi letteralmente bagnare il pigiama. Feci un patto con loro: sarei diventato loro amico a patto che mi lasciassero andare in bagno. Faccio la pipì normalmente da allora ma ora convivo con i mostri". Il fantastico e il sovrannaturale hanno influenzato il regista da sempre, a causa della sua educazione cattolica e della nonna che tentò in più occasioni di esorcizzarlo per via della sua passione per le creature inquietanti. Appassionato di letteratura gotica e fantastica, amante di Kubrick e Hitchcock, divoratore di fumetti e manga, Guillermo Del Toro è riuscito a costruire uno stile riconoscibile, fin dagli esordi come makeup artist cinematografico, professione svolta per dieci anni prima di passare alla regia, riuscendo nell'intento di raccontare storie già viste con un approccio originale, lezione appresa da un altro dei suoi riferimenti culturali, Stephen King, di cui cita spesso la frase: “Tutte le canzoni sono già state cantate, bisogna quindi riuscire a raccontare una vecchia storia con una nuova voce”. Ripercorriamo quindi la vita e la carriera di uno degli autori più interessanti, poliedrici e personali del panorama cinematografico contemporaneo.
Religione, insetti, obitori e fantasmi
Uno stile così particolare come quello di Del Toro non può che essere nato da una fantasia fuori dal comune colpita da elementi singolari: la cultura cattolica del regista, per sua stessa ammissione, lo ha profondamente segnato (non a caso croci e angeli sono sempre ben presenti nei suoi film), così come i colori forti del suo paese d'origine, il Messico. Amante fin da piccolo di insetti, orologi e meccanismi in generale, Del Toro ha cominciato a disegnare a sette anni e già allora vendeva fumetti realizzati da lui a parenti e amici. Il colore ha importanza fondamentale per il regista, che tende a dare un significato a ogni tonalità: amante del color ambra, dominante in tutte le sue opere, Del Toro tratta quasi con sacralità il rosso, simbolo del sangue e della vita. Anche la morte ha avuto grande effetto su di lui: la violenza del luogo dove ha vissuto da bambino e la vicinanza a un obitorio durante un periodo della sua adolescenza lo hanno segnato, portandolo a documentarsi su malattie e parassiti e ad appassionarsi alle immagini di organi e fluidi biologici, inseriti in ogni sua pellicola. Del Toro ricorda inoltre spesso un episodio particolare della sua infanzia: afferma di aver percepito distintamente, a 12 anni, il fantasma dello zio, esperienza all'origine del film La spina del diavolo. Una testimonianza che in bocca a qualunque altro regista sembrerebbe una trovata pubblicitaria o uno scherzo, ma che raccontata da Del Toro assume tutto un altro valore. Le fonti di ispirazione
Accanto al background familiare e ambientale, non si possono non citare i riferimenti culturali del regista: estimatore ai limiti del fanatismo di Stanley Kubrick e Alfred Hitchcock, Del Toro spazia da racconti dell'orrore, in particolare il gotico vittoriano, a fumetti e manga, mostrando ammirazione in particolare per H.P. Lovecraft, Stephen King, Victor Hugo, Charles Dickens e Oscar Wilde. Per quanto riguarda la musica ha detto di amare soprattutto Pink Floyd e Peter Gabriel, mentre il film che più lo ha segnato è La moglie di Frankenstein, con Frankenstein a guidare la sua personale top3 dei mostri preferiti, seguito dal mostro della lagune e l'uomo lupo. La passione di Del Toro per la letteratura lo ha inoltre portato a curare la collana della casa editrice Penguin dedicata ai racconti dell'orrore. Necropia e "gli incubatori di idee"
I primi passi di Del Toro nel mondo del cinema sono cominciati molto presto grazie alla sua passione per il trucco di scena: il regista ha fatto del suo amore per i modellini e i materiali una vera e propria professione. Istruito da Dick Smith, makeup supervisor di L'esorcista, Del Toro ha realizzato, a 21 anni, il suo primo cortometraggio, Dona Lupe, nel 1985. Makeup supervisor per dieci anni, Del Toro ha anche fondato la sua compagnia di trucco cinematografico, chiamata Necropia. Fin dall'adolescenza, tutto il lavoro di Del Toro è documentato in una serie di diari che il regista chiama “incubatori di idee” e che non ha mai abbandonato nel corso degli anni: a ogni film Del Toro comincia un nuovo diario e pare che li conservi tutti gelosamente tranne quello di Cronos, finito nelle mani di James Cameron e mai più restituito. Questo zibaldone pieno di appunti e disegni è diventato un volume, edito da Harper Design, chiamato “Guillermo Del Toro's cabinet of curiosities – My notebooks, collections and other obsessions” e uscito nel 2013. Cronos
L'esordio al cinema di Del Toro risale al 1993: in Cronos, suo primo lungometraggio, il regista ha inserito tutte le sue ossessioni. Un anziano proprietario di un banco di pegni trova un oggetto misterioso in grado di donare la vita eterna: tra angeli, congegni, insetti, lo sguardo innocente di una bambina e vampiri, lo stile del regista è già ben preciso e riconoscibile, con il tentativo, riuscito, di raccontare il vampirismo al tempo stesso come un sacramento e una dipendenza, cercando di ricreare la mitologia vampiresca attraverso l'alchimia. La pellicola segna anche l'inizio della collaborazione di Del Toro con il suo attore feticcio, Ron Perlman, con il quale instaura da allora una fruttuosa collaborazione e un'amicizia anche fuori dal set, e con il direttore della fotografia Guillermo Navarro. Il successo è clamoroso: il film vince nove riconoscimenti in patria e si aggiudica il premio della Settimana della Critica al festival di Cannes.
Il lato oscuro di Hollywood e un rapimento
Con un tale successo al film d'esordio, il richiamo di Hollywood non si è fatto attendere a lungo: il secondo film del regista è Mimic (1997), pellicola che Del Toro collega al periodo peggiore della sua vita. Ancora una volta Del Toro parla di insetti e malattie, ma questa volta deve scontrarsi con i fratelli Weinstein, che non gli concedono il final cut del film. Contemporaneamente, suo padre viene rapito in Messico e liberato dopo 72 giorni in seguito al pagamento di un riscatto: Del Toro decide quindi di lasciare la terra natia e trasferirsi a Los Angeles. Vergognatosi per anni del suo secondo film, nel 2011 Del Toro si è tolto una soddisfazione: in quell'anno è uscita la versione "director's cut" di Mimic, che lo ha finalmente riconciliato con la più sfortunata delle sue creature: “Ora posso dire di amare tutti i miei film”, ha commentato il regista. Tequila Gang e La spina del diavolo
Il brutto rapporto di Del Toro con Hollywood si è finalmente risanato grazie a Blade II (2002), film con protagonista Wesley Snipes tratto dai fumetti Marvel. Sul set di questo film Del Toro ha conosciuto Mike Mignola, creatore di Hellboy, con il quale si è creata una proficua collaborazione che ha portato il regista messicano a dirigere ben due film dedicati al diavolo rosso interpretato da Ron Perlman. Per dirigere Hellboy, personaggio di cui è un grande fan, Del Toro ha rinunciato a Blade III: al film si è aggiunto poi, nel 2008, il sequel, Hellboy Golden Army e pare che arriverà presto anche il terzo capitolo. Il labirinto del fauno, gli Oscar e i piedi a panino
Dopo tanti vampiri e diavoli, la consacrazione di Del Toro è arrivata nel 2006 con un film scritto e diretto dal regista, Il labirinto del fauno, struggente storia di una bambina che vede creature e mondi misteriosi sullo sfondo della Guerra Civile Spagnola. I dolci occhi della protagonista Ofelia (Ivana Baquero) mostrano allo spettatore un mondo sotterraneo fatto di ombre e magia, in cui creature allo stesso tempo affascinanti e terrificanti incarnano le paure e i sogni di una bambina costretta a crescere prematuramente. Una storia che ha incantato e commosso il pubblico di mezzo mondo, in cui il talento visionario di Del Toro, creatore del design e di tutte le creature del film, è espresso al meglio, portando la pellicola a vincere ben tre premi Oscar, tra cui quello per la miglior fotografia di Guillermo Navarro. Del Toro ha raccontato un aneddoto curioso sulla serata degli Oscar del 2007: “Ricordo che avevo le scarpe strette perché ho i piedi come Fred Flintstone: sono panini umani! Ero allo stesso tempo immensamente felice e piegato dal dolore”. Pacific Rim e computer grafica
Accanto a tanti film che portano il suo marchio indelebile, ci sono anche diversi progetti sognati dal regista e mai andati in porto: il film tratto dal libro di Lovecraf "Alle montagne della follia" è uno spettro che continua a sfuggire da anni a Del Toro, mentre persa per sempre è la sua versione di "Lo Hobbit", che inizialmente avrebbe dovuto dirigere e che poi è stato invece affidato a Peter Jackson. Sui due anni passati in Nuova Zelanda a lavorare a "Lo Hobbit", di cui è rimasto co-sceneggiatore, Del Toro ha detto: “Fare un casino è essenziale. Penso al fallimento come a successo latente. Ogni esperienza nella vita è neutra: sta a noi trasformarla in un'evoluzione o in involuzione”. Tra gli altri progetti sfumati di Del Toro figurano anche una serie di animazione horror per la Disney chiamata Disney Double Dare You, fatto che ha spinto il regista ad avvicinarsi alla Dreamworks, e la regia dei nuovi film di Star Wars, per cui inizialmente si era fatto il nome di Del Toro, affidati poi a J.J. Abrams, episodio che il regista ha commentato così: “Pensare di dirigere Star Wars è come pensare di uscire con una supermodella: non penso a queste cose”. The Strain
Uno dei progetti più personali del regista è senz'altro The Strain: nata come una trilogia di romanzi scritta a quattro mani con l'amico Chuck Hogan, la saga sui vampiri, ribattezzati "strigoi", di Del Toro è stata trasformata quest'anno in una serie televisiva prodotta da FX insieme a Carlton Cuse, sceneggiatore di Lost. Nella serie, che deriva direttamente dalle ossessioni giovanili del regista e si rifà ai suoi primi lavori cinematografici, Del Toro cerca di creare una nuova mitologia vampiresca e riunisce in una sola opera tutti i suoi elementi caratteristici: il gusto per il dettaglio macabro, gli organi sotto formalina (immagine che ha dato il la alla storia e che Del Toro ha ritrovato disegnata in un suo diario risalente a 22 anni fa), le luci al neon, i parassiti, i vampiri e l'eterna lotta tra razionalità e sentimento. Un prodotto di genere ben confezionato, che Del Toro ha scritto, diretto e curato nel design, soprattutto quello delle creature. La prima stagione si è conclusa in questi giorni e tornerà per una seconda, e presumibilmente anche una terza, il prossimo anno. Trovare se stessi nelle storie
Il successo di Del Toro è dovuto alla sua vasta cultura, che spazia da riferimenti alti alla cultura pop, all'insaziabile curiosità, che continua a stimolarlo anche a 50 anni (sua la frase "la curiosità per me è tutto: quando perdiamo la curiosità perdiamo l'immaginazione e diventiamo vecchi"), all'entusiasmo da appassionato folle (e nerd) e a un gusto per il dettaglio e l'immagine che lo rende immediatamente riconoscibile. Amato da colleghi e amici (tra cui figurano anche i registi messicani di maggior successo come Alfonso Cuaron, Alejandro Iñarritu e Robert Rodriguez), con cui tende a collaborare più volte come nel caso di Perlman e Navarro, la vera forza di Del Toro sta nell'amare profondamente la fantasia e le storie, storie in cui ama perdersi e ritrovarsi, a prescindere da quello che pensa la gente, come ha ribadito con forza più volte: “Raccontiamo storie perché abbiamo un vuoto nel cuore. Questo vuoto non si riempie con il successo, ma con le storie che raccontiamo. Anche se a volte non sono apprezzate, io amo le mie storie a tal punto che le critiche degli altri non mi fanno mai dire "la devo smettere" ma piuttosto "fanculo, devo prevalere!"”. Pubblicato su Movieplayer.