L’INTERVISTA
Come nasce l’idea di “sintetizzare” la vecchia collaborazione tra te e Guy Davis con un album, “Juba Dance”? Il nostro primo incontro risale al 2007, quando ci siamo conosciuti ad un festival blues negli States. Tra noi è nata quasi subito, come per miracolo, una profonda amicizia basata non solo sulla stima reciproca, ma anche sulla passione che abbiamo entrambi per il blues più autentico, quello delle radici. Negli ultimi sei anni il nostro stretto legame personale si è concretizzato in concerti dal vivo in Italia e soprattutto all’estero, nell’incisione da parte di Guy di un paio di tracce nel mio disco “Spirit & Freedom”, e ora in questo album a quattro mani che vuole in qualche modo “fotografare” lo stato del nostro splendido rapporto.
Il disco racconta di un blues acustico: è questa la dimensione che tu e Davis preferite? Sì, Guy ed io siamo estremamente affascinati dal sound primitivo del blues e dello spiritual. Da quella musica che si suonava “senza elettricità”, sotto la veranda di quelle baracche sparse tra i campi di cotone del Sud degli States. Gran parte dell’ “anima del blues” sta ancora nelle canzoni che si cantavano laggiù. E poi il suono acustico ci permette di raccontare meglio le storie che stanno dentro e intorno a questo misterioso e magico genere musicale.
Leggendo il comunicato stampa si evidenzia come i fan di Guy Davis siano trasversali, non necessariamente amanti di un certo tipo di musica: a cosa attribuisci questa capacità di soddisfare differenti palati? Questo è dovuto soprattutto al fatto che il blues è la madre di tutte le musiche moderne, e che quindi chiunque abbia ascoltato musica negli ultimi 100 anni ha fondamentalmente ascoltato un derivato del blues. E poi Guy è un performer assolutamente straordinario che non può lasciare indifferenti. Sa catturare l’ascoltatore e portarlo in un’altra dimensione senza grandi trucchi, assoli pirotecnici e numeri da giocoliere. La sua voce e la sua chitarra hanno l’energia e la potenza che non trovi nemmeno assemblando amplificatori su amplificatori. Pochi artisti riescono a fare ciò che fa Guy con la stessa semplicità e la stessa naturalezza. Ma questo è l’unico modo di toccare il cuore della gente. E lui lo sa.
Se dovessi estrapolare l’anima, il messaggio dell’album, come potresti disegnarlo? L’anima del disco, che vede l’incontro, l’abbraccio e la fusione totale e completa tra due musicisti provenienti da mondi apparentemente lontani, distanti anni luce, non può che assumere il colore un po’ virato di una vecchia fotografia in bianco e nero o quello di un disegno a carboncino. Questo perché probabilmente in un'altra vita Guy ed io eravamo fratelli e già suonavamo il blues sotto la veranda di casa. Solo per noi… senza pensare a quello che sarebbe venuto dopo. E forse in quell’altra vita non c’erano nemmeno le macchine fotografiche, ma solo un ragazzino che seduto innanzi a noi tracciava i nostri ritratti su di un foglio di carta ingiallita, recuperata chissà dove… Difficile per me fare graduatorie tra giganti… mi affido quindi ad un esperto come te: perché Guy è considerato il vero erede di Robert Johnson e J.L. Hooker? Perché Guy Davis è un bluesman vero, autentico come lo erano Robert Johnson e John Lee Hooker. Per loro il blues era ed è molto più di un genere musicale. Era ed è la vita stessa. Fa parte di loro. E questo non è affatto scontato. Oggi ci sono bluesman che “recitano una parte”. A volte sono attori straordinari e riescono quasi a sembrare veri. Imitano gli originali risultando talvolta persino “più veri” dei loro stessi eroi. L’anima del blues però sta da tutt’altra parte. Come dice spesso il mio amico Charlie Musselwhite: “Molti pensano di suonare il blues, ma il blues è un’altra cosa”. Ecco, Guy Davis, come Hooker e Johnson, non ha trovato quell’altra cosa, ossia il blues, su Google o su YouTube, ma l’ha cercata (e trovata) girando il mondo con la sua chitarra, il suo banjo, senza furbi espedienti o scorciatoie, semplicemente conquistando ogni sera che Dio manda sulla terra le persone che siedono davanti a lui in un famoso jazz club di Parigi, Londra o New York, o in malfamato locale sperduto tra Mississippi, Texas e Louisiana. Se fosse nato 50 anni prima oggi Guy non sarebbe l’erede di Hooker o di Johnson, ma molto più semplicemente uno di loro, uno di quelli che ha fatto la storia del blues.