Lo so, di solito il lunedì pubblico le classifiche, ma che gusto c’è ad avere un blog se non ci si può fare le regole da soli e infrangerle quando se ne ha voglia? Di solito non parlo nemmeno dello stesso argomento in un unico giorno qui e su FantasyMagazine, e invece stavolta l’ho fatto. E, di solito, su FantasyMagazine non recensisco libri pubblicati ormai da vent’anni, specie se non sono mai stati tradotti in italiano. Stavolta, per The Lions of Al-Rassan di Guy Gavriel Kay, ho deciso di ignorare quel che faccio di solito e di fare quel che mi pare e nel modo che mi pare, rendendo omaggio al libro che amo di più. Se potessi portare un solo libro sulla famosa isola deserta sarebbe questo, senza alcun dubbio. George R.R. Martin? Robert Jordan? Brandon Sanderson? No, se dei loro libri parlo più spesso è perché per lo più sono stati tradotti e quindi il mio blog può avere più lettori ma, per quanto io ami quello che loro hanno scritto, nessuno di loro mi ha mai colpita come Kay. Nessuno di loro sa usare le parole come lui, essere poetico anche nella prosa, e costruire storie così perfette, in cui non manca nulla e nulla è di troppo e i cui personaggi sono larger than life. Lo so, in genere non gradisco quando qualcuno in un testo in italiano usa espressioni in altre lingue. Sono consapevole di contraddirmi da sola, grazie, ma per una volta non mi importa. E certe espressioni sono più belle in inglese che in italiano, senza considerare che ho letto The Lions of Al-Rassan in inglese, e quando leggo un libro in lingua la mia mente tende a rimanere ancorata a quella lingua.
Ho aspettato tanto per rileggere questo romanzo, e ora sono qui a parlarne in due modi. Con tono professionale su FantasyMagazine, se volete una recensione è questo il testo che dovete leggere: http://www.fantasymagazine.it/libri/22530/the-lions-of-al-rassan/. Nemmeno nella recensione parlo di tutto quello che c’è in The Lions of Al-Rassan, per riuscirci dovrei scrivere un libro, ammesso di esserne capace, ma almeno quello è un testo serio, scritto in modo professionale. Qui parlo del romanzo in modo assolutamente emotivo, e se ho aspettato tanto per rileggerlo, al di là della cronica mancanza di tempo, è perché ne avevo un po’ paura. I libri veri ti toccano nel profondo, e a volte il modo in cui riescono a farlo può spaventare. Con The Lions of Al-Rassan ho pianto. Come una fontana, e non sto scherzando. Singhiozzavo, e in alcuni momenti ho dovuto interrompere la lettura perché avevo negli occhi così tante lacrime da non riuscire a vedere le parole. Direi che questo non è uno di quei libri che posso leggere sui mezzi pubblici o in un bar durante la pausa pranzo, non gli ultimi capitoli quanto meno. Il secondo arrivo di Rodrigo a Orvilla, e tutto quel che ne consegue.
Una lettura emotiva. Come detto non riesco parlare di tutto, e non faccio neppure finta di andare in ordine. The Lions of Al-Rassan è ambientato, più o meno, nella Spagna della Reconquista. Per la verità questa penisola si chiama Al-Rassan e non Spagna, e Kay ha spiegato molto chiaramente il motivo del suo distacco dalla realtà in brevi saggi e interviste. Se vi interessa io ho riportato parte delle sue parole nell’articolo sulla fantasy storica, comunque in sintesi da un lato è una forma di rispetto per personaggi di cui non possiamo davvero sapere tutto e dall’altro gli consente di non rispettare i fatti storici reali ma di stabilire a piacimento lo svolgersi dei fatti migliore per la storia che intende narrare. Ricordo un paio di romanzi – no, niente titoli per l’occasione, sarebbero spoiler troppo grossi – in cui ha deliberatamente fatto finire delle guerre in modi molti diversi da come sono finite nella nostra realtà storica, o ha alterato notevolmente il destino di alcuni personaggi rispetto alle fonti d’ispirazione, e un altro in cui è stato fedele alla storia che conosciamo. In tutti i casi mi ha spezzato il cuore, ma questo lo fa sempre.
In un altro romanzo, La rinascita di Shen Tai, Kay ha scritto alcuni versi che mi hanno colpita profondamente. Kay è anche poeta, non solo romanziere, e spesso i suoi versi mi colpiscono. Sima Zian, l’uomo che per primo cita questi versi (che in parte compariranno anche in River of Stars) parla del fardello presente nelle opere di Chan Du, e a me si stringe il cuore.
La luna piena cade attraverso il cielo.
Le gru sfrecciano tra le nubi.
I lupi ululano. Non trovo pace
Perché non ho il potere
Di riparare un mondo rotto.
(pag. 331)
Già che ci sono li cito anche in originale:
Full moon is falling through the sky.
Cranes fly through clouds.
Wolves howl. I cannot find rest
Because I am powerless
To amend a broken world.
Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.
Queste sono le cose che ci tengono in vita. Le persone care, certo, ma anche le nostre passioni. La bellezza, per quanto fragile possa essere.
I fiori sull’albero erano sbocciati e poi già caduti: bellissimi per poco, e poi caduti.
(La rinascita di Shen Tai, pag. 496)
Ci sono altre immagini che mi tornano in mente, come la rosa di Alixana nel Sarantine Mosaic. Un’opera d’arte straordinaria, per creare la quale era occorsa una maestria notevole, e terribilmente fragile. O l’Ercole di neve realizzato da Michelangelo nel 1494 per volere di Piero de’ Medici.
Some losses aren’t deaths, but separations mi ha scritto Guy circa un anno fa rispondendo alle domande che gli avevo proposto per un’intervista. Ci sono separazioni nei suoi romanzi, ma anche qui non approfondisco per non fare spoiler, e ci sono morti, ma ci sono altri tipi di perdita. Quanto durerà la rosa di Alixana? Cosa rimane dell’arte di Shirin dopo che lei ha smesso di danzare? E cosa rimane di Al-Fontina dopo la scomparsa dei califfi? Cosa, di quella stagione a Ragosa?
Rodrigo è Jaddita. Prima ho paragonato le tre religioni del romanzo a quelle che conosciamo, ma Kay ha dato un nome preciso alle religioni anche se non si è soffermato più di tanto sui vari culti. Non gli interessava la dottrina, ma l’effetto della religione sulla vita delle persone. I Jadditi adorano Jad, il dio del sole. I Kindath venerano le lune, sorelle del dio, erranti come loro e capaci di offrire una luce più gentile anche se meno luminosa. Gli Ashariti, provenienti da un deserto in cui il sole cocente spesso significa morte, venerano le stelle. Ed è Rodrigo, un Jaddita, a dire a Jehane “Even the sun goes down, my lady” (pag. 107).
Even the sun goes down.
Il padre di Kay era medico. L’ho scoperto forse un anno e mezzo fa, leggendo qualche suo commento su internet. Non so altro, se non che era molto rispettato. Può un dettaglio biografico di uno scrittore far sentire ancora più vivi i suoi personaggi? Perché anche se li amavo già prima, tutti quanti, ora sento in loro un calore maggiore. Mi giustifico meglio il modo di trattare la medicina. Voglio dire, qualsiasi scrittore serio si documenta sugli argomenti di cui intende parlare, e ho visto abbastanza bibliografie di Kay da avere almeno un’idea di come lui si documenti, ma una conoscenza di prima persona è diversa. Il calore umano, il vedere certe emozioni, il sentire la medicina come una missione…
In Al-Rassan, in Esperaña, Ferrieres, Karch, Batiara – even, in time, in the far-off eastern homelands of the Asharites – what happened that night in a burning hamlet near Fezana became legend, told so often among physicians, courts, military companies, in universities, taverns, places of worship, that it became imbued with the aura of magic and the supernatural. (pag. 513)
You touched people’s lives, glancingly, and those lives changed forever. (pag. 364)
“But now you can, don’t you see? It isn’t a dream any more. The world has changed. When you can do what you dreamed about, sometimes it isn’t … as simple any more.” (pag. 462)