Guy Gavriel Kay: The Lions of Al-Rassan

Creato il 19 gennaio 2015 da Martinaframmartino

Lo so, di solito il lunedì pubblico le classifiche, ma che gusto c’è ad avere un blog se non ci si può fare le regole da soli e infrangerle quando se ne ha voglia? Di solito non parlo nemmeno dello stesso argomento in un unico giorno qui e su FantasyMagazine, e invece stavolta l’ho fatto. E, di solito, su FantasyMagazine non recensisco libri pubblicati ormai da vent’anni, specie se non sono mai stati tradotti in italiano. Stavolta, per The Lions of Al-Rassan di Guy Gavriel Kay, ho deciso di ignorare quel che faccio di solito e di fare quel che mi pare e nel modo che mi pare, rendendo omaggio al libro che amo di più. Se potessi portare un solo libro sulla famosa isola deserta sarebbe questo, senza alcun dubbio. George R.R. Martin? Robert Jordan? Brandon Sanderson? No, se dei loro libri parlo più spesso è perché per lo più sono stati tradotti e quindi il mio blog può avere più lettori ma, per quanto io ami quello che loro hanno scritto, nessuno di loro mi ha mai colpita come Kay. Nessuno di loro sa usare le parole come lui, essere poetico anche nella prosa, e costruire storie così perfette, in cui non manca nulla e nulla è di troppo e i cui personaggi sono larger than life. Lo so, in genere non gradisco quando qualcuno in un testo in italiano usa espressioni in altre lingue. Sono consapevole di contraddirmi da sola, grazie, ma per una volta non mi importa. E certe espressioni sono più belle in inglese che in italiano, senza considerare che ho letto The Lions of Al-Rassan in inglese, e quando leggo un libro in lingua la mia mente tende a rimanere ancorata a quella lingua.

Fino a ora avevo trattato abbastanza male The Lions of Al-Rassan, non perché ne avessi parlato male – non potrei mai farlo – ma perché ne avevo parlato troppo poco. Qualche riga in articoli dedicati alla nascita di un mondo fantastico, al realismo nella narrativa fantasy o alla fantasy storica dello stesso Kay, ma era davvero poco. In un articolo per Effemme dedicato alle donne di Kay avevo addirittura liquidato il libro in due righe, citando la sola Jehane, anche se in quel caso si trattava di una rivista cartacea, io avevo reali problemi di spazio (già così ho abbondantemente sforato dalla lunghezza massima che avrei dovuto rispettare) e volevo concentrarmi sull’unico libro in commercio in Italia. E poi ricordavo troppo poco per scrivere un articolo serio.

Ho aspettato tanto per rileggere questo romanzo, e ora sono qui a parlarne in due modi. Con tono professionale su FantasyMagazine, se volete una recensione è questo il testo che dovete leggere: http://www.fantasymagazine.it/libri/22530/the-lions-of-al-rassan/. Nemmeno nella recensione parlo di tutto quello che c’è in The Lions of Al-Rassan, per riuscirci dovrei scrivere un libro, ammesso di esserne capace, ma almeno quello è un testo serio, scritto in modo professionale. Qui parlo del romanzo in modo assolutamente emotivo, e se ho aspettato tanto per rileggerlo, al di là della cronica mancanza di tempo, è perché ne avevo un po’ paura. I libri veri ti toccano nel profondo, e a volte il modo in cui riescono a farlo può spaventare. Con The Lions of Al-Rassan ho pianto. Come una fontana, e non sto scherzando. Singhiozzavo, e in alcuni momenti ho dovuto interrompere la lettura perché avevo negli occhi così tante lacrime da non riuscire a vedere le parole. Direi che questo non è uno di quei libri che posso leggere sui mezzi pubblici o in un bar durante la pausa pranzo, non gli ultimi capitoli quanto meno. Il secondo arrivo di Rodrigo a Orvilla, e tutto quel che ne consegue.

Mi ero già commossa in altri punti, però ero sempre riuscita a trattenere le lacrime, se non tutte le risate, fino a quando la storia non ha preso la sua piega più drammatica. Sapevo fin dall’inizio dove stavamo andando, questa è stata la terza lettura, ma da quando conoscere gli eventi permette di controllare tutte le emozioni? Per me non è mai stato così. Ho pianto, e quando in futuro rileggerò questo romanzo sono sicura che piangerò ancora. Sono viva, certe emozioni fanno parte di me, e se un libro riesce a farle emergere tutto quello che posso fare è congratularmi con il suo autore.

Una lettura emotiva. Come detto non riesco parlare di tutto, e non faccio neppure finta di andare in ordine. The Lions of Al-Rassan è ambientato, più o meno, nella Spagna della Reconquista. Per la verità questa penisola si chiama Al-Rassan e non Spagna, e Kay ha spiegato molto chiaramente il motivo del suo distacco dalla realtà in brevi saggi e interviste. Se vi interessa io ho riportato parte delle sue parole nell’articolo sulla fantasy storica, comunque in sintesi da un lato è una forma di rispetto per personaggi di cui non possiamo davvero sapere tutto e dall’altro gli consente di non rispettare i fatti storici reali ma di stabilire a piacimento lo svolgersi dei fatti migliore per la storia che intende narrare. Ricordo un paio di romanzi – no, niente titoli per l’occasione, sarebbero spoiler troppo grossi – in cui ha deliberatamente fatto finire delle guerre in modi molti diversi da come sono finite nella nostra realtà storica, o ha alterato notevolmente il destino di alcuni personaggi rispetto alle fonti d’ispirazione, e un altro in cui è stato fedele alla storia che conosciamo. In tutti i casi mi ha spezzato il cuore, ma questo lo fa sempre.

Prendendo le cose con un certo distacco Jehane è ebrea, Ammar musulmano e Rodrigo cristiano. Io naturalmente dopo sono andata a leggermi la biografia di Rodrigo Diaz, El Cid, e ogni volta che vedevo un punto di contatto mi veniva da sorridere di un sorriso ammirato per quel che Kay ha fatto, per come ha trattato certi momenti. Però… tre persone appartenenti a tre religioni diverse. Vi dice niente questo? Il popolo di Jehane non ha una patria, come gli ebrei medievali, e deve cercare di sopravvivere nella tolleranza di popoli più forti. Quanto a cristiani e musulmani, se potessero ciascuno dei due popoli farebbe volentieri sparire l’altro dalla faccia della terra o, in mancanza di meglio, lo farebbe sparire da Al-Rassan. E Rodrigo e Ammar? Loro sono personaggi fuori dal comune, larger than life. Come si pongono in tutto questo? La loro storia è straziante, anche se devo dire che pure Jehane fa la sua parte. Sono tutti e tre straordinari, ma il rapporto fra i due uomini, proprio perché loro sono uomini e sono abilissimi soldati, è qualcosa di speciale.

In un altro romanzo, La rinascita di Shen Tai, Kay ha scritto alcuni versi che mi hanno colpita profondamente. Kay è anche poeta, non solo romanziere, e spesso i suoi versi mi colpiscono. Sima Zian, l’uomo che per primo cita questi versi (che in parte compariranno anche in River of Stars) parla del fardello presente nelle opere di Chan Du, e a me si stringe il cuore.

La luna piena cade attraverso il cielo.

Le gru sfrecciano tra le nubi.

I lupi ululano. Non trovo pace

Perché non ho il potere

Di riparare un mondo rotto.

(pag. 331)

Già che ci sono li cito anche in originale:

Full moon is falling through the sky.

Cranes fly through clouds.

Wolves howl. I cannot find rest

Because I am powerless

To amend a broken world.

Non ho il potere di riparare un mondo rotto. E Ammar e Rodrigo? Loro appartengono a un altro romanzo, ma se il loro mondo è rotto, se musulmani e cristiani sono destinati ad affrontarsi, loro cosa possono fare? Io avevo iniziato a rileggere questo libro prima del 7 gennaio, e certi pensieri non possono non venire in mente. Un conflitto… già Almalik aveva fatto la sua parte, e una certa flotta partita da Batiara pure, ma se entrano in scena Yazir ibn Q’arif e Ghalib?… Vent’anni fa Kay ha scritto un libro ambientato in un mondo inventato e ispirato a episodi vecchi di parecchie centinaia di secoli, eppure è ancora drammaticamente attuale. Il prossimo 8 febbraio io sarò insieme a diverse altre persone al Festival del fumetto di Novegro, per parlare del pregiudizio sul fantasy considerato come un genere per bambini. Io avevo deciso già da un po’ che avrei parlato di Kay, ora so che questo libro avrà nel mio intervento uno spazio più grande rispetto a quanto non avevo ipotizzato all’inizio. Il fantasy parla di noi, e in certi casi è il modo più vero con cui lo si possa fare.

Ammar è un poeta. Trovare guerrieri in un romanzo fantasy è normale, in fondo la maggior parte di queste storie comprende un serio pericolo di morte e chi meglio del guerriero – che sia mago, spadaccino o generale poco importa – può portare avanti la trama? I poeti sono un po’ più rari, anche se in Kay la musica e la poesia hanno sempre uno spazio importante. E io mi sto scoprendo ad amare sempre più questo spazio. Vi ricordate Robin Williams in L’attimo fuggente (Dead Poets Society)?

Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita.

Queste sono le cose che ci tengono in vita. Le persone care, certo, ma anche le nostre passioni. La bellezza, per quanto fragile possa essere.

Ammar ha ucciso l’ultimo califfo di Silvenes. Quel gesto può farcelo etichettare come assassino in modo un po’ troppo sbrigativo, prima di conoscerlo meglio e di cambiare idea. Lui, come del resto anche Rodrigo, sa essere spietato, ma anche se la sua vita è stata fortemente marchiata da quell’assassinio non è tutta lì. E Ammar rimpiange la bellezza di Al-Fontina, la reggia dell’ultimo califfo e quel che nel tempo dei califfi il suo popolo è stato capace di fare. Un’epoca splendida, e poi perduta.

I fiori sull’albero erano sbocciati e poi già caduti: bellissimi per poco, e poi caduti.

(La rinascita di Shen Tai, pag. 496)

Ci sono altre immagini che mi tornano in mente, come la rosa di Alixana nel Sarantine Mosaic. Un’opera d’arte straordinaria, per creare la quale era occorsa una maestria notevole, e terribilmente fragile. O l’Ercole di neve realizzato da Michelangelo nel 1494 per volere di Piero de’ Medici.

Some losses aren’t deaths, but separations mi ha scritto Guy circa un anno fa rispondendo alle domande che gli avevo proposto per un’intervista. Ci sono separazioni nei suoi romanzi, ma anche qui non approfondisco per non fare spoiler, e ci sono morti, ma ci sono altri tipi di perdita. Quanto durerà la rosa di Alixana? Cosa rimane dell’arte di Shirin dopo che lei ha smesso di danzare? E cosa rimane di Al-Fontina dopo la scomparsa dei califfi? Cosa, di quella stagione a Ragosa?

Alcune perdite non sono morti. L’arte, la cultura, l’innocenza. La libertà di poter prendere autonomamente le proprie decisioni, senza che ci siano obblighi superiori, o supposti tali, a forzare le persone a compiere scelte che non vorrebbero compiere, presentando opzioni diverse ma ugualmente sbagliate.

Rodrigo è Jaddita. Prima ho paragonato le tre religioni del romanzo a quelle che conosciamo, ma Kay ha dato un nome preciso alle religioni anche se non si è soffermato più di tanto sui vari culti. Non gli interessava la dottrina, ma l’effetto della religione sulla vita delle persone. I Jadditi adorano Jad, il dio del sole. I Kindath venerano le lune, sorelle del dio, erranti come loro e capaci di offrire una luce più gentile anche se meno luminosa. Gli Ashariti, provenienti da un deserto in cui il sole cocente spesso significa morte, venerano le stelle. Ed è Rodrigo, un Jaddita, a dire a Jehane “Even the sun goes down, my lady” (pag. 107).

Even the sun goes down.

Jehane è un medico, come lo era suo padre prima di lei e come lo sarà Rustem di Kerakek in Lord of Emperors. Kimberly Ford della Trilogia di Fionavar (The Fionavar Tapestry) è una studentessa di medicina, mentre Meghan, la mamma di Ned Marriner in Ysabel, lavora per Medici senza frontiere. Un medico è sempre utile, come pensa Crispin in Sailing to Sarantium quando Zoticus gli dà l’indirizzo di un medico. E così né io né lui all’inizio avevamo dato peso ai medici, perché un medico è sempre utile, anche se Crispin in seguito si ritroverà a interrogarsi sul nominativo datogli da Zoticus. E io? Io credevo che i medici avessero la loro funzione nella narrativa, e in effetti Jehane, suo padre Ishak e Rustem non potrebbero essere nulla di diverso da ciò che sono, ma Kim avrebbe potuto essere iscritta a qualsiasi altra facoltà e Meghan avrebbe potuto tranquillamente svolgere un altro lavoro.

Il padre di Kay era medico. L’ho scoperto forse un anno e mezzo fa, leggendo qualche suo commento su internet. Non so altro, se non che era molto rispettato. Può un dettaglio biografico di uno scrittore far sentire ancora più vivi i suoi personaggi? Perché anche se li amavo già prima, tutti quanti, ora sento in loro un calore maggiore. Mi giustifico meglio il modo di trattare la medicina. Voglio dire, qualsiasi scrittore serio si documenta sugli argomenti di cui intende parlare, e ho visto abbastanza bibliografie di Kay da avere almeno un’idea di come lui si documenti, ma una conoscenza di prima persona è diversa. Il calore umano, il vedere certe emozioni, il sentire la medicina come una missione…

In Al-Rassan, in Esperaña, Ferrieres, Karch, Batiara – even, in time, in the far-off eastern homelands of the Asharites – what happened that night in a burning hamlet near Fezana became legend, told so often among physicians, courts, military companies, in universities, taverns, places of worship, that it became imbued with the aura of magic and the supernatural. (pag. 513)

Amo questo modi di Kay di passare dalle storie individuali a una realtà più grande, il suo farci vedere le cose da una prospettiva storica quasi distaccata, per poi tornare nel vivo della storia e nelle vicende individuali. E mi fa sempre commuovere quando per la sua grandiosità un’azione umana da’ origine a una leggenda. E questa scena, quello che segue, è il momento in cui io definitivamente perdo il controllo. Forse ora più di prima, perché ho in mente un’immagine più concreta da agganciare alla descrizione che sto leggendo. Un figlio che guarda un padre o, ribaltando il rapporto fra realtà e finzione, un padre che guarda un figlio. Dei rapporti umani così strettamente allacciati da essere praticamente indistricabili. Il confronto fra quello che potrebbe essere e quello che è. Non credo di essere riuscita a spiegarmi chiaramente, per farlo dovrei fare spoiler e invece io voglio che voi leggiate e gustiate il libro, e così non trovo le parole. E allora riprendo parole che non sono mie. Ne avevo appuntate altre ma ho deciso di non trascriverle. Sono bellissime ma anche troppo specifiche. Vi lascio con due pensieri per i quali dovete trovare da soli la vostra risposta.

You touched people’s lives, glancingly, and those lives changed forever. (pag. 364)

“But now you can, don’t you see? It isn’t a dream any more. The world has changed. When you can do what you dreamed about, sometimes it isn’t … as simple any more.” (pag. 462)



Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :