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Ha senso parlare di “primavera palestinese”? Il riassetto regionale tra nuove alleanze e la guerra a Gaza

Creato il 04 dicembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Ha senso parlare di “primavera palestinese”? Il riassetto regionale tra nuove alleanze e la guerra a Gaza

Richiesta di partecipazione e democrazia, pluralismo, voce alle istanze popolari, opposizione a longevi regimi autoritari. Nell’elencare le caratteristiche essenziali che hanno guidato le rivolte arabe, c’è un fattore che, anche a livello di dinamiche macroregionali, merita un’analisi di riguardo. In un frangente cruciale per molti Stati e popoli del Vicino Oriente – alle prese con cambiamenti epocali nell’ambito della c.d. “primavera araba”, la sempre viva questione del nucleare iraniano, la situazione in Siria – la questione palestinese pare relegata in una posizione marginale nell’agenda politica internazionale. A partire dallo scoppio delle rivolte in Tunisia ed Egitto, ormai circa un anno e mezzo fa, molti analisti erano in fervente attesa di un possibile contagio palestinese. Ma è davvero possibile una “primavera palestinese”? Come cambia la posizione della questione palestinese nell’agenda di un mondo arabo in transizione?

Una nuova Intifada?

Da un punto di vista storico e delle relazioni internazionali – ferma restando la schiacciante supremazia politica dell’asse USA-Israele – il conflitto arabo-israeliano è una storia di progressiva atomizzazione della parte araba. A partire dall’accordo di pace del 1979 tra Egitto e Israele firmato a Camp David, che coincise con l’uscita di scena dal conflitto del Paese arabo dal maggior peso, un progressivo processo di disgregazione dell’universo arabo-palestinese è l’elemento che ha contribuito senza dubbio, oltre all’instancabile politica di colonizzazione israeliana portata avanti con il sostegno di Washington, a condurre alla cristallizzata situazione odierna. La forza contrattuale palestinese è stata inevitabilmente e pesantemente inficiata dallo sganciamento graduale dei governi arabi. Tale processo ha seguito un percorso analogo se si considera, nello specifico, la classe politica palestinese.

Questa dinamica di frammentazione interna si può ricondurre almeno in parte al susseguirsi dei fallimenti della diplomazia e ad una leadership che si è gradualmente allontanata dalla base della resistenza. Soprattutto dagli accordi di Oslo in poi, l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), già arrivata piuttosto indebolita alle negoziazioni sviluppatesi lungo il canale norvegese, assunse le vesti di un ente di amministrazione – l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) – smettendo gli abiti di “Organizzazione per la Liberazione”, e indossando quelli di istituzione di “governo” a tutti gli effetti, rinunciando ad affrontare l’elemento che preclude ancora oggi qualsiasi opzione legata ad una reale autodeterminazione: la graduale espansione dell’occupazione israeliana. La vittoria elettorale “non gradita all’Occidente” conseguita da Hamas - il movimento di resistenza islamico nato nel 1988 quale costola dei Fratelli Musulmani egiziani – nella Striscia di Gaza deriva anche da ciò, ed ha creato un vero e proprio conflitto endogeno di “governance” della causa palestinese.

Oltre ad un quadro politico assai frammentato, permangono ostacoli puramente fisici e materiali che si frappongono ad una qualsiasi azione unitaria del popolo palestinese, che hanno a che fare con la condotta dello Stato di Israele. La Cisgiordania è un territorio dove gli insediamenti israeliani – pochi giorni fa il Ministro delle Finanze israeliano, Yuval Steinitz, ha comunicato il raddoppio dei fondi destinati alla costruzione di nuovi insediamenti – dividono, circondano, dominano le comunità palestinesi; la libertà di movimento è compromessa, a causa dei numerosi check-point che minano il percorso, così come l’accesso alle risorse, in particolar modo quelle idriche, quasi esclusivo appannaggio israeliano. La Striscia di Gaza resta, anche dopo il ritiro dei coloni avvenuto nel 2005, “un territorio sigillato, imprigionato, occupato”, come definito dallo Special Rapporteur dell’ONU, il prof. John Dugard, in un rapporto sulla situazione dei diritti umani nei Territori Occupati che risale al 20071. Giova poi ricordare in questa sede che il popolo palestinese è stato già protagonista di due Intifade – nel 1987 e nel 2000 – duramente represse dall’esercito israeliano. Sintetica ed efficace l’analisi del giornalista israeliano Gideon Levy: “Il popolo palestinese vuole la libertà dall’occupazione. Ma come ottenerla? All’inizio provarono a non fare nulla. Per vent’anni restarono inerti e in effetti non accadde nulla. Poi provarono con le pietre e i coltelli, la prima intifada. E continuò a non succedere nulla, salvo gli Accordi di Oslo che non cambiarono la natura fondamentale dell’occupazione. Dopo di ciò tentarono con un’intifada aggressiva: di nuovo niente. Ci hanno provato con la diplomazia: ancora nulla, l’occupazione è proseguita come prima. Ora si sono divisi: una mano lancia missili Qassam contro Israele (Hamas nda), l’altra si rivolge alle Nazioni Unite (Fatah nda). Israele le schiaccia entrambe. In mezzo, il popolo palestinese tenta anche la protesta non violenta e si scontra con le canne dei fucili puntate in faccia, proiettili dalla punta di gomma e pallottole vere. E, di nuovo, nulla. I palestinesi hanno tentato tre approcci diversi (armi, diplomazia e resistenza nonviolenta) e Israele dice no a tutti e tre”2.

h5>Il panorama regionale

Nell’aprile del 2011 Hamas e Fatah hanno siglato al Cairo, con la mediazione egiziana, un accordo di riconciliazione nazionale. Esso ha previsto la costituzione di un gabinetto di unità ad interim che, presieduto dal leader di Fatah, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), avrebbe assunto la funzione di traghettare verso le elezioni generali a Gaza ed in Cisgiordania. Il processo, al momento, pare essersi inceppato, a causa di atavici contrasti, come dimostrano i reciproci arresti di membri delle due fazioni. Mentre Abu Mazen si è impegnato nella lotta per il riconoscimento della Palestina come Stato non membro in seno alle Nazioni Unite, Hamas sta vivendo una fase di transizione interessante se si considerano i legami con i suoi tradizionali sponsor regionali.

A partire dal marzo scorso, manifestando disapprovazione verso la condotta repressiva del governo siriano di Assad contro le forze dell’opposizione – prevalentemente sunnite – Hamas ha voltato le spalle ad un alleato ventennale, facendo seguire il dissenso al trasferimento del proprio quartier generale da Damasco a Doha. Un conseguente allontanamento dalla sfera iraniana è prevedibile, ma ancora del tutto da valutare. Il 23 ottobre scorso, ulteriore elemento di novità, Gaza è stata il teatro di quella che è stata definita una “visita storica”, che ha avuto il merito, in attesa di valutarne in concreto le conseguenze politiche, di rompere l’embargo diplomatico della Striscia. In tale occasione Ismail Haniyeh, vertice dell’esecutivo di Gaza, appartenente ad Hamas, ha fatto gli onori di casa allo sceicco Hamad bin Kalifa al-Thani, emiro del Qatar. Il ricco emirato ha promesso di garantire, attingendo dai suoi cospicui fondi, diversi progetti di ricostruzione e sviluppo nella Striscia per una cifra che si aggira intorno ai quattrocento milioni di dollari.

La politica estera di Doha – anche in termini di sforzi profusi verso una riconciliazione palestinese – è caratterizzata, nell’ultimo periodo, da un certo dinamismo regionale, complice il mantenimento della stabilità interna e le sue infinite riserve di dollari. Vitalità testimoniata dalla visita dello stesso emiro al Cairo, nell’agosto scorso. In quella sede ben 2 miliardi di dollari sono stati versati nelle casse della Banca centrale egiziana, a dimostrazione di una politica estera, quella del Qatar, che si manifesta assai sensibile a livello diplomatico verso i Paesi della cosiddetta “primavera”. Sensibilità che, al contrario, sembra non caratterizzare l’Arabia Saudita, soprattutto verso la Fratellanza Musulmana del Cairo. La monarchia wahabita, allo scoppio delle rivolte arabe, è divenuta il centro – non solo simbolico come dimostra la repressione delle rivolte in Bahrein del marzo del 2011 – della “controrivoluzione”. E’ un fatto, tuttavia, che la prima visita all’estero del nuovo presidente egiziano, Mohammed Morsi, appartenente ai Fratelli Musulmani, si sia svolta proprio a Ryiad, lo scorso 11 luglio. Motivazione: “realpolitik”, pura e semplice. Morsi non può fare a meno dei soldi sauditi e non può ignorare un milione e mezzo di egiziani che lavorano in Arabia, le cui rimesse nutrono la bilancia dei pagamenti del Cairo3. Certo è che la valutazione degli scenari non può che essere legata alle scelte del nuovo governo egiziano, insediatosi il 30 giugno 2012. Alle prese con una fitta agenda di problemi economici e sociali da affrontare, Morsi si trova in una posizione apparentemente contraddittoria, come dimostra l’esempio saudita cui si è appena fatto riferimento. Da una parte, e tornando alla questione della Palestina, c’è la sua contiguità con Hamas e la storica sensibilità verso le sorti del popolo palestinese; dall’altra sussiste la tradizione di legami del suo Paese con Israele – e con gli Stati Uniti – eredità del precedente regime. Ma un banco di prova cruciale per testare le intenzioni del nuovo Egitto, come di tutto il mondo arabo, è offerto, ancora una volta, dalle decisioni adottate dal governo israeliano.

L’Operazione Pilastro di Difesa

Il 14 novembre l’aviazione israeliana ha lanciato sulla Striscia di Gaza un attacco militare, sancendo l’inizio dell’operazione “Pilastro di Difesa”. Lo stesso giorno lo Shin Bet – i servizi di sicurezza dello Stato ebraico – ha annunciato la morte del capo dell’ala militare di Hamas, Ahmad al-Jabari, raggiunto da un missile mentre era in automobile con il suo autista. Jabari, nell’ottobre del 2011, aveva partecipato al rilascio del soldato israeliano Gilad Shalit in cambio di oltre mille palestinesi. L’Operazione segue uno spartito già noto, con le inossidabili ragioni di sicurezza e di autodifesa adottate da Israele in conseguenza del lancio di razzi da parte di Hamas. Come nel caso dell’Operazione Piombo Fuso di quattro anni fa, che costò la vita a circa 1400 palestinesi, l’attacco avviene alla vigilia delle elezioni israeliane, fissate per il prossimo 22 gennaio. Una campagna elettorale, dunque, che si consuma ancora sul campo più familiare ad Israele, quello militare e della sicurezza. Altra analogia rispetto a quanto accaduto quattro anni fa è rappresentata dalla reazione della comunità internazionale e dei leader occidentali che competono per chi, per primo, chiama in causa il diritto all’autodifesa di Israele. Gli Stati Uniti, attraverso la portavoce del Dipartimento di Stato, Victoria Nuland, hanno dichiarato che “attacchi verbali ad Israele non aiutano in questo momento”. Atteggiamento emulato dall’Unione Europea ed i principali media occidentali.

Il governo turco – proprio mentre ad Istanbul è in corso il processo per l’attacco israeliano alla Mavi Marmara del maggio del 2010 – ha accusato Israele di “pulizia etnica” nella Striscia. Il presidente egiziano, Mohammed Morsi – dopo aver richiamato il suo ambasciatore in Israele – si è eretto a mediatore di un cessate il fuoco. Le visite a Gaza del primo ministro egiziano Hesham Kandil e del ministro degli esteri tunisino, Rafik Abdessalem, avvenute rispettivamente il 16 e 17 novembre, “rappresentano un chiaro segnale di discontinuità con il passato, in particolare rispetto alla precedente guerra del 2008. Sono senza dubbio indicazioni di una mutata situazione geopolitica”, come fa notare Youcef Bouandel, professore presso l’Università del Qatar. A poche ore dall’inizio dei bombardamenti, il governo egiziano aveva deciso l’apertura selettiva del valico di Rafah, l’unico accesso alla Striscia che non confina con Israele, permettendo il transito, a fini umanitari, dei palestinesi feriti. Non un’apertura illimitata, dunque. Il 21 novembre, il Ministro degli esteri egiziano, Kamel Amr, ha annunciato – mentre il segretario di stato USA, Hillary Clinton, apprezzava lo sforzo profuso dall’Egitto nella veste di mediatore – il raggiungimento di un accordo di cessate il fuoco, quando si contano centosessantuno vittime palestinesi e cinque israeliane.

Nell’attesa di valutare la tenuta del cessate il fuoco, alcune riflessioni sono doverose. I festeggiamenti nelle strade di Gaza nel “giorno della vittoria”, poche ore dopo il raggiungimento dell’accordo, certificano un successo simbolico per Hamas che, nei giorni di conflitto, è riuscita a compattare il fronte politico interno, in particolare la Jihad Islamica, e aumentato le sue credenziali a livello regionale e rispetto a Fatah. I vertici che si sono svolti al Cairo con Egitto, Turchia, la Lega Araba, hanno di certo rafforzato la visibilità di Hamas, anche in ragione della sua nuova posizione all’interno dello scacchiere regionale, che pare in fase di allontanamento dall’ “internazionale sciita” costituita da Iran – che ha fornito comunque razzi Fajr-5 e Fajr-3 lanciati in territorio israeliano nel corso del conflitto – Siria ed Hezbollah. Determinante, oltre all’evoluzione della situazione siriana, sarà la condotta dell’Egitto. Il Paese ha rivestito un ruolo centrale dal punto di vista diplomatico, ma resta da vedere come il nuovo presidente Morsi gestirà, oltre alla delicata situazione interna, la presenza di due alleati ingombranti come Stati Uniti – sono ancora fitti i legami economici tra i due Paesi, vedi anche la recente richiesta di aiuto inoltrata dall’Egitto al Fondo Monetario Internazionale, dominato da Washington – ed Israele, con il quale è in vigore un trattato di pace. E conciliare ciò con la tradizionale vicinanza della Fratellanza con Hamas ed il popolo palestinese.

Tra gli scenari possibili c’è la ripresa – in virtù dei nuovi riposizionamenti ed il fallimento del “processo di pace” – del tavolo diplomatico, magari con rinnovati parametri e criteri, e con maggiore simmetria contrattuale. Ma è una prospettiva evidentemente prematura, soprattutto se permane l’inerzia della comunità internazionale verso gli atti di Israele. Fa notare John Mearsheimer, professore di scienze politiche presso l’Università di Chicago ed esperto di relazioni internazionali: “Israele ha due strategie per trattare il problema palestinese. In primo luogo, si affida alla copertura politica e diplomatica degli Stati Uniti, specialmente presso le Nazioni Unite. Ed in questo senso un ruolo chiave è ricoperto dalle lobbies israeliane a Washington (l’AIPAC, l’American-Israeli Public Affairs Committee è la più importante nda), che esercitano forti pressioni sui leader americani per favorire Israele e per non fare nulla per fermare la colonizzazione dei Territori Occupati. La seconda strategia è rappresentata dal concetto del “Muro di Ferro” di Vladimir Jabotinsky: in sostanza, battere i palestinesi riducendoli alla sottomissione. Jabotinsky capì che i palestinesi avrebbero sempre opposto resistenza agli sforzi sionisti di colonizzare le loro terre. Ciò nonostante, egli era convinto che Israele dovesse punire in modo così duro i palestinesi, che essi sarebbero stati costretti a riconoscere, di fronte al fatto compiuto, che ogni ulteriore atto di resistenza sarebbe stato inutile. Israele applica tale strategia fin dal 1948, anno della sua fondazione, e le operazioni “Piombo Fuso” e “Pilastro di Difesa” rispondono a questo principio”4.


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