“L’hackmeeting è l’incontro delle comunità, delle controculture digitali e non», spiega uno degli organizzatori, Deckard, che ha preso a prestito il nome del protagonista di “Ma gli androidi sognano pecore elettriche?” di Philip Dick, «e delle individualità che si pongono in maniera critica e propositiva rispetto all’avanzare delle nuove tecnologie, sempre più legate a doppio filo al controllo sociale, alle imprese belliche e alla commercializzazione di ogni spazio vitale».
Tutti i partecipanti al meeting utilizzano dei nickname, come normalmente avviene sul web. Il centro della manifestazione è il “lan-space”, l’area dedicata alla rete, dove ognuno col proprio computer portatile può mettersi in rete con gli altri. In genere qui è facile conoscere altri partecipanti, magari per farsi aiutare a installare Linux, Ubuntu, Devian, per risolvere un dubbio, o anche solo per scambiare quattro chiacchiere. L’intenzione è proprio quella di fornire uno scambio di conoscenze sul funzionamento della grande macchina, la Rete, anche dal punto di vista tecnico, per rendere più consapevoli i gesti quotidiani e per far conoscere meglio il “Grande Fratello” e capire come combatterlo.
Siamo tutti controllati
Proprio quest’ultimo caso è stato trattato in “Paranoia in practice: strumenti di controllo, strumenti di difesa”, una panoramica sui metodi di controllo con le tecnologie disponibili, su come evitarle. Seguendolo, si capisce come telecamere, carte magnetiche, telefonini e social network monitorano ogni aspetto della vita di tutti e la registrano. Spostamenti, consumi, abitudini, conversazioni: tutto viene osservato, indicizzato, catalogato. «I grandi fratelli sono tanti, sono ovunque e hanno mille facce», denunciano gli organizzatori.
Due mesi fa è stata inaugurata la “sala sistema Roma”, una centrale che controlla tutte le telecamere della capitale, oltre cinquemila, e può esaminare automaticamente il contenuto di migliaia di immagini al minuto, e ricevere perfino i video in diretta dalle telecamere montate sugli autobus. Una struttura in grado, quindi, di seguire un cittadino tutta la giornata in ogni punto della città. Così la capitale diviene uno spazio di vita controllato tipico delle aree di prigionia, una comunità sotto controllo che perde il diritto alla privacy. Ma altri strumenti di controllo sono ormai dati per scontati: gli acquisti fatti con bancomat e carte di credito forniscono un profilo delle attività di ognuno, le “fidelity card” dei supermercati danno l’elenco delle abitudini e dei gusti personali, il cellulare tiene traccia di ogni spostamento e il provider internet registra ogni mail e ogni sito visitato, annotando tempi e quantità. L’oratore, Ciaby in questo caso, si spinge più in là: «Siamo noi stessi a offrire spontaneamente una mole enorme di dati al Grande Fratello: pubblichiamo le nostre foto su internet, mettiamo a disposizione il contenuto delle nostre mail in cambio di una pubblicità mirata, e offriamo persino la mappa completa delle nostre relazioni personali, indicando amicizie, conoscenze, affetti».
«Le tecnologie rappresentano però sono anche un grande strumento di resistenza», spiega Deckard, «Basta studiare un po’ come funziona tutto questo per individuare sistemi concreti per sottrarsi al controllo: per esempio evitare le carte sconti nei supermercati e criptare la posta elettronica con alcuni programmi disponibili in rete». «La tecnologia si può anche usare per rovesciare i mezzi e i modi della produzione, ridando valore alla collaborazione, al bene collettivo e alla condivisione. Così è nato il software libero, che ha dimostrato che si possono scrivere programmi e sistemi operativi migliori e più efficienti di quelli prodotti dalle grandi multinazionali semplicemente dando valore alle persone invece che ai soldi».
Programmare è narrare?
La programmazione, cioè la scrittura del codice sorgente che serve a far funzionare i programmi dei computer sempre più presenti nella nostra vita quotidiana, è sempre stata vista dai non specialisti come un’attività molto tecnica, ripetitiva, fredda, legata alla logica e alla matematica, comunque priva di un’anima per così dire umanistica e narrativa. Non la vedono così però i due relatori del seminario “Programmare è come narrare?”, Stefano Penge e Maurizio Mazzoneschi.