Che ti piaccia o no, uno dei più grandi scrittori del secolo scorso – uno dei Grandi, in effetti – si chiama J.R.R. Tolkien. E non tanto perché, a sessant’anni dalla prima edizione de Il Signore degli Anelli, il successo di pubblico dell’opera tolkieniana non accenna a diminuire: quello è l’effetto, non la causa. Il vero cuore della grandezza di Tolkien pulsa più in profondità: semplicemente, qualunque compito o ruolo tu decida di attribuire a quel complesso sistema di valori e funzioni che chiamiamo Letteratura, l’opera di Tolkien sarà sempre perfettamente in grado di assolverlo. Bussola etica, specchio esistenziale, creazione di mondi alternativi, riflessione sul potere delle storie, strumento di comprensione e interpretazione del reale, tutto quello che vuoi: Tolkien non cederà mai il passo. All’alba del 2014 si direbbe che ormai dovresti essertene fatto una ragione. E invece.
E invece, se esistesse una Storia dei pregiudizi letterari, il capitolo su Tolkien starebbe senz’altro tra i primi cinque. Pochi autori hanno subito, lungo i decenni, altrettanti fraintendimenti, equivoci, mistificazioni, forzature interpretative, “sgambetti” critici, superficialità verso l’intero genere letterario di appartenenza (l’ultima pronunciata nientemeno che dall’alto pulpito di quel flop galattico chiamato Masterpiece), tante e tali da ribaltare drasticamente il significato intrinseco dell’intera opera tolkieniana. Da qui la necessità, ancora oggi, di difendere la Terra di Mezzo: impresa che richiede non più spade, asce o archi, ma profondità di pensiero e attenzione ai dettagli. E Wu Ming 4, nella raccolta di scritti su Tolkien pubblicata qualche mese fa da Odoya, dimostra di saper maneggiare sapientemente entrambe le armi.
Le questioni sul campo sono due: controbattere i tentativi cinquantennali della Critica Alta di sbarazzarsi di Tolkien relegandolo sotto l’etichetta vacua e informe di “letteratura d’evasione” e assegnando alla sua opera il valore poco più che folkloristico di rievocazione nostalgica del bel tempo andato traslato in un mondo d’invenzione; e cercare di capire per quale motivo, dopo Tolkien, si spalanchi un abisso che accoglie in sé centinaia di successori, ma nessun erede.
Per affrontarle a dovere, Wu Ming 4 decide di partire dall’inizio: tratteggiando la figura di Tolkien come medievista oxfordiano, imitatore – prima che narratore – di storie mitiche e inventore di nuovi linguaggi. Proprio nel linguaggio sta l’origine dell’epica tolkieniana: ribaltando la pratica che poi i suoi epigoni avrebbero necessariamente seguito, da buon filologo Tolkien prima diede vita a nuove lingue (sistemi linguistici embrionali, ma perfettamente coerenti e connotati, ognuno con peculiarità e sonorità proprie), e solo dopo si preoccupò di creare mondi complessi che quelle lingue potessero popolare di vita e leggenda. Ciò che in autori come Brooks o Martin è pura esigenza coloristica – l’introduzione di parole con suoni e grafie appropriatamente epiche – nell’opera tolkieniana diventa la genesi stessa dell’intera cosmogonia della Terra di Mezzo. Non a caso, nel Silmarillion il mondo si genera dalla musica e dai canti. Niente male per un autore di serie B, vero? Ma non finisce qui. Perché a ogni mondo mitico che si rispetti, oltre alle lingue, serve anche un’etica eroica: e per un’opera composta in anni che videro il mondo squassato dalla più grande guerra mai combattuta, l’argomento era piuttosto scottante.
Ancora una volta, l’origine dell’etica tolkieniana sta nel mondo che il suo autore conosceva meglio: il Medioevo e i cicli della mitologia germanica. Che promuovevano un’ideologia eroica incarnata in guerrieri desiderosi solo di annientarsi nel volere del proprio condottiero, vincendo battaglie o morendo nel tentativo. Peccato che l’annichilimento della personalità collettiva nella volontà del capo, negli anni in cui Tolkien rinsaldava le fondamenta del proprio universo leggendario, non avesse prodotto esiti granché invidiabili. Senza contare che la superficialità propagandistica con cui il Nazismo continuamente falsava l’essenza dei suoi adorati miti germanici irritava non poco Tolkien, da sempre fiero oppositore di ogni forma di segregazione razziale. Da cui la necessità di creare una nuova etica eroica, che doveva avere il proprio cuore non nell’obbedienza cieca a un capo, ma nel libero arbitrio del singolo individuo. L’epica tolkieniana è il racconto delle imprese di personaggi che procedono costantemente attraverso il dubbio e la necessità di scegliere tra una via o l’altra, in un’impresa in cui ogni passo in avanti conduce ad un bivio. Chi si adegua al vecchio modello eroico perisce, peggio ancora: rischia di trascinare alla rovina eserciti e città. Chi è insicuro, dubbioso, ma determinato ad andare avanti nel nome del bene comune, alla fine salverà il mondo.
Ed ecco che Tolkien, lungi dall’essere sinonimo di “escapismo”, può nuovamente rivestire a pieno diritto il proprio vero abito: quello di un autore così profondamente radicato nel proprio tempo da arrivare a proporgli un nuovo modello di comportamento. Riflettendo sul potere e le sue incontrollabili derive, sul libero arbitrio, sulla volontà di salvezza che solo nel bene collettivo può trovare la propria ragion d’essere; il tutto, ovviamente, raccontando storie straordinarie, complesse e intrinsecamente coerenti in un’unica visione d’insieme. E tutto ciò risponde anche alla seconda domanda: Tolkien non ha ancora trovato un erede perché nessuno è ancora riuscito a costruire una cosmogonia ugualmente “viva”, strutturata e suscettibile di infinite possibilità di sviluppo, oltre che sorretta da un’altrettanto profonda istanza etica.
Se poi tutto questo non dovesse bastarvi, nel libro di Wu Ming 4 troverete anche molto altro. Scoprirete, ad esempio, il caso “Tolkien in Italia”: vale a dire quel particolare filone interpretativo unico al mondo (e che il mondo non ci invidia: nessuno all’estero si è mai sognato di riprenderlo) con cui la critica italiana di destra ha pensato bene di leggere l’opera tolkieniana, sovrapponendovi un simbolismo fatto solo di parole che ha ridotto l’epica dell’Anello a un inno reazionario ai valori del Medioevo e del paganesimo. Oppure le letture cristiane, che fanno di Frodo una metafora di Cristo; o ancora, che l’influenza di Tolkien è stata così vasta che persino i Led Zeppelin, per dire, hanno seminato echi tolkieniani un po’ dappertutto. Imparerete a conoscere meglio gli Hobbit e il tipo di società a cui si ispirano. Il tutto con l’accompagnamento del bellissimo corredo iconografico che quasi ad ogni pagina affianca testo e immagine in un’armonia visiva che sempre di più caratterizza la produzione editoriale Odoya.
Un’unica avvertenza: questo libro nuoce gravemente ai pregiudizi letterari. Se credete che esistano letterature di serie A e di serie B, Difendere la Terra di Mezzo non fa per voi: non ci capireste niente. A meno che non abbiate voglia di spegnere i pregiudizi per un po’ e gustarvelo, come dicono i recensori delle riviste serie, “come fosse un romanzo”; finché, voltata l’ultima pagina, vi guarderete intorno e vi ritroverete con un punto di vista diverso su un sacco di cose. Che poi è proprio quello che succede con i buoni romanzi, e con i viaggi di avventure.
P.S. Svariati minuti di applausi allo studio Brochendors Brothers, che ha realizzato la bellissima grafica di copertina. Sarebbe stato facile piazzare in bella mostra un uomo, un nano, un elfo, un bosco e chiuderla lì: ma le armi di Théoden re di Rohan che sorvegliano la brossura anteriore e l’Albero Bianco di Gondor in placida attesa in quella posteriore rappresentano esortazioni ben più efficaci, per chi si accinga a difendere la Terra di Mezzo. Chapeau.
Difendere la Terra di Mezzo. Scritti su J.R.R. Tolkien
Odoya
2013, pp. 288, € 18,00