Haiti mon amour/1

Creato il 17 novembre 2015 da Mapo
Al primissimo impatto Haiti è un piatto africano su cui qualcuno, al posto del sale, ha rovesciato un cucchiaio da cucina colmo di Messico.In aeroporto un gruppo di musicisti accoglie i passeggeri appena sbarcati dal volo dell'America Airlines battendo forte le mani su strumenti locali.
Taxi, pullman e camion sono dipinti ad hoc con motivi più o meno religiosi ma sempre coloratissimi. È cosa comune che sulla fiancata di un autobus affollato capiti di vedere la Madonna stringere la mano a Maradona o una scritta che inneggia all'immenso potere di Jesus troneggiare nei pressi dell'effige a gambe aperte di Michael Jordan, il dio pagano della pallacanestro. Sacro e profano si cercano in un gioco di rimandi che va dalle messe cantate e partecipatissime della domenica mattina ai riti wudu in cui gli stregoni dei villaggi lanciano maledizioni sotto l'effetto di stupefacenti. Sul retro di un camion Messi ammicca a chiunque, al petto la maglietta a righe bianche e azzurre dell'Argentina. Da un pick-up riadattato al trasporto di passeggeri, stracolmo di persone esce il motivetto della Cucaracha al posto del solito clacson. La polvere, una tinta più bianca di quella che si vede nei paesi sotto il Sahara, copre qualunque cosa, dagli occhiali da sole con le lenti taroccate fino alla verdura stesa in bella mostra ai bordi delle strade. Fa un caldo umido da fine giugno in Italia, gli haitiani sembrano accorgersene a malapena mentre vanno un po' ovunque in preda agli impegni quotidiani di questo venerdì mattina. Siamo ad Haiti per qualche giorno, impegnati in una prima "missione" preparatoria nata con l'idea di proporre un progetto di cardiochirurgia per giovani adulti a uno degli ospedali della capitale, Port Au Prince. Il St. Luc Hospital, si trova a qualche Km dal centro della città e, insieme al suo cugino pediatrico St. Damien, sopravvive egregiamente grazie all'aiuto e al sostegno di una grossa realtà italiana che si chiama Fondazione Rava, da decenni impegnata in progetti di cooperazione di questa sfortunata metà dell'isola. Perché il paese non è nemmeno un'isola, ma solo metà. Una linea verticale tracciata in mezzo a questo grosso scoglio a est di Cuba, due ore di volo da Miami, divide Haiti da Santo Domingo, i villaggi turistici dalle Bidonville, la natura prosperosa dai campi svuotati dopo il disboscamento selvaggio, i ricchi dai poveri. Il traffico sulla via che dall'aeroporto porta alla guesthouse è denso come il burro d'arachidi che, la mattina, spalmo su un panino un po' gommoso.
Le donne di una certa età camminano veloci con grossi cesti stracolmi di frutta sulle spalle, i mercati sono ovunque e ci sono distese di scarpe di seconda mano, magliette variopinte con scritte americane e grossi coni tappezzati di bottoncini colorati in bella a vista. Bisogna avvicinarsi parecchio per capire che si tratta di blister pieni di pastiglie, che ragazzoni muscolosi sollevano sopra le spalle e vendono porta a porta mentre il principio attivo evapora sotto i raggi del sole. Non esattamente il tipico farmacista europeo. Ripenso alla scritta sulla scatola dell'Augmentin: conservare in un luogo fresco e asciutto. Fino al prossimo ciclone (la stagione qui volge al termine) almeno per metà ci siamo. Come in ogni paese de terzo mondo che si rispetti ci sono barbieri ovunque. L'effige di personaggi famosi e i volti di uomini con la barba impeccabile disegnati non senza una certa maestria si alternano sui muri della città.Abbasso il finestrino di dietro di questa macchina che balla su e giù attraversando le numerose buche sull'asfalto. Entra una brezza calda, i rumori del traffico e del chiacchiericcio, gli odori più intensi. Entrano i tropici, insomma. E per l'ennesima volta mi rendo conto che è proprio così che mi sento bene.

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