Svolgimento
8 Giugno 1940
Non fu la pioggia battente né il vento sferzante contro la finestra della cella a destare dal sonno Fra Zènobè, bensì il fragore dei colpi inferti sul duro legno della sua porta. La voce concitata di Fra Xavier gli fece capire all’istante che il loro tempo era giunto al termine, il momento tanto temuto era arrivato. Dovevano scappare, immediatamente, e non per salvare i loro corpi né tantomeno le loro povere anime, ormai perdute e condannate da tanto tempo. Avevano un orrido segreto da celare, da far scivolare nell’oblio, mai sarebbe dovuto finire tra le mani nere delle SS. Scapparono come due indemoniati, il loro saio ondeggiava in una macabra danza attraverso i corridoi del convento. Tutti i fratelli usciti dalle celle correvano terrorizzati, nessuno era concretamente preparato all’arrivo della Wermacht pur sapendo da settimane che il destino della regione e quindi dell’abbazia era segnato. Fra Zènobè e Fra Xavier raggiunsero i sotterranei, superarono un’entrata nota soltanto a pochi eletti e con enorme fatica spostarono il pesante lastrone di pietra che copriva l’accesso a una cripta segreta. Nessuna anima benedetta da Dio vi aveva messo mai piede senza dover poi riemergerne corrotta e irrimediabilmente perduta. Si guardarono negli occhi, e ricolmi di triste rassegnazione si calarono nella cripta, il buio che li avvolgeva li faceva sentire ancora più indifesi, ma ormai non aveva più nessuna importanza. Con enormi sforzi riuscirono a rimettere a posto il lastrone di pietra sopra le loro teste e cominciarono a scendere verso l’abisso. Fra Xavier accese una lampada a olio che rischiarava appena le umide scale di dura pietra. Ormai da sopra non giungeva più alcun rumore, erano lì da soli per compiere l’ultimo passo del loro empio cammino cominciato decenni prima. Alla fine delle scale che sembravano non finire mai, si aprì davanti ai loro occhi una grande camera orridamente ormata, sculture e opere immonde la arredavano, ed era quanto di peggio un’anima corrotta dal male potesse produrre. Tre giacigli di pietra sorgevano ai piedi di un nero altare, proprio sotto una parete divorata dall’umidità, il fetore di muschio e di disfacimento era insopportabile. Con esitazione Fra Zènobè scavalcò la pietra che circondava un sepolcro e vi si distese. Ebbe un moto di ribrezzo nel sentire la dura e umida pietra sotto la testa. Fra Xavier fece altrettanto nella sepoltura a lui destinata. Così si trovarono a entrambi i lati del nero giaciglio più grande, unico oggetto in quella cripta che appariva assolutamente intonso, senza che la corruzione del tempo gli avesse arrecato alcun danno. Le ultime parole che Fra Zènobè udì prima di scivolare nell’oblio furono di Fra Xavier che implorava il perdono di Dio per la sua anima, ma alle sue orecchie suonarono più come una bestemmia che come un sincero pentimento. Dopo solo buio.
Montpellier, Francia
10 Ottobre 2012
Fu con allegro stupore che Didier De Guy, aprì la spartana busta che aveva appena tirato fuori dalla cassetta della posta, un invito a trascorrere un’intera settimana presso un’abbazia da poco restaurata era quanto di meglio potesse desiderare per cercare di finire quel romando giallo che ormai giaceva sulla sua scrivania più immobile di un paraplegico cui avevano sottratto la sedia a rotelle. <Affinché la vostra mente e il vostro corpo si riconcilino con la natura sul sentiero del Signore>, a Didier era sembrata un po’ stucchevole come frase da stampare su un invito, ma non era il tipo da rifiutare una vacanza gratis, ci sarebbe andato, anche se il foglio fosse stato pieno di errori grammaticali, cavolo se ci sarebbe andato, non fosse altro per non subire le martellanti telefonate del suo editore, che gli stava alle calcagna peggio di un cane rabbioso.
Saint-Bertin, Francia
25 Ottobre 2012
Sceso dall’aereo, Didier impiegò diverse ore e svariate bestemmie prima di trovare la strada per l’Abbazia. Quando la sua vescica fu sul punto di esplodere, la sua bocca trattene una maledizione nel vedere dinanzi a se il corpo principale di quella che sembrava essere la sua destinazione. Maestosa! Era l’aggettivo che gli venne in testa, appena la vide, ma l’urgenza di urinare non gli permise di indugiare in altre osservazioni, almeno non in quel momento, pensò. I frati lo accolsero con gentilezza ma con una freddezza di sguardi che non si aspettava. Dopo essersi sistemato e rinfrescato gli fu comunicato l’orario dei pasti e le diverse regole cui attenersi. Dettami che si promise di rispettare. Scese nel grande salone adibito ai pasti e fece la conoscenza di Fra Zèbèno, un uomo minuto dai modi duri, di poche ma decise parole. Si presentava con due occhietti piccoli ed esageratamente sporgenti, delle labbra sottili, un naso davvero inesistente e un cranio privo di capelli ma attraversato da vene bluastre che sembravano sul punto di esplodere. Nel breve intervallo in cui vi dialogò, Didier ebbe la sensazione che quegli occhi lo scrutassero nel profondo. Al pari degli altri frati, pur essendo chiaramente il capo della baracca, Fra Zèbèno aveva un’aria di durezza che sembrava andare oltre a quello che richiedeva il suo ruolo. Didier provava un pungente disagio nel sostenere quello sguardo, chiese soltanto se fosse l’unico ospite dell’abbazia. Gli fu spiegato che ogni settimana erano invitati due uomini di cultura affinché potessero esprimere dei pareri scevri da pregiudizi sulla vita che conducevano i frati. Al contempo confidavano che una volta terminata l’esperienza, presso l’abbazia, potessero diffondere al mondo esterno l’importanza della loro opera di divulgatori e servi della parola di Dio. Si affrettò a terminare la discussione e prese posto a tavola. Davvero un astuto modo di farsi pubblicità, anche la religione ormai è entrata nel business, pensò Didier non senza una punta di sarcasmo. Durante la cena gli dissero inoltre che François Merrote, uno storico di origini catalane, che avrebbe dovuto dividere con lui il soggiorno presso l’abbazia, li avrebbe raggiunti solo con qualche giorno di ritardo dovuto a un contrattempo. La cena diversamente da quanto immaginava fu abbondante e il vino, uno splendido Borgogna non mancò di riempire più volte il suo bicchiere e di offuscare i suoi pensieri. Terminato il pasto, con grande fatica riuscì a raggiungere la sua cella, e senza nemmeno svestirsi piombò sul letto in un sonno profondo.
I seguenti tre giorni trascorsero scanditi dalle stesse consuetudini, leggera colazione la mattina, passeggiata nel vicino bosco e pranzo. Durante una delle sue lunghe e abituali passeggiate lungo il perimetro dell’abbazia aveva notato una piccola costruzione adiacente al muro di cinta. Sempre alla ricerca di nuovi spunti per il suo romanzo che continuava a languire sul tavolo della sua cella, si avvicinò alla casa, e si diresse verso la finestra di quella che sembrava la cucina. L’abitazione aveva un’aria infelice, dava la sensazione di essere disabitata da molto tempo, il giardino prospicente era pieno di erbacce e dappertutto vi erano segni di disfacimento. Fece attenzione nel non inciampare su alcune assi di legno abbandonate sotto la finestra e avvicinato il naso sul vetro per guardare meglio all’interno, vide il riflesso di un uomo, alle sue spalle. Si voltò di scatto, spaventato, e lo vide lì, immobile, a pochi metri da dove si trovava lui. Era vestito con una divisa da giardiniere, goffamente stretta al petto che sembrava quasi sul punto di esplodere. Notevolmente sproporzionato, con un viso squadrato dal colorito cadaverico, lo sguardo vacuo perso nel vuoto e apparentemente privo di pensieri. Didier rimase alquanto interdetto alla vista di questo gigante che nella mano destra teneva una pala, mentre la sinistra era chiaramente sporca di terra fino al gomito. Quasi scusandosi gli chiese se quella fosse casa sua, ma non ottenne nessuna risposta. Decise di togliere il disturbo e senza distogliere lo sguardo dall’uomo di fronte a lui indietreggiò cercando di non inciampare, farfugliando qualcosa che nella sua testa doveva sembrare una specie di saluto. L’uomo continuò a fissarlo come se Didier fosse trasparente, senza dire una parola, e probabilmente senza nemmeno pensarla. Guadagnato il sentiero, Didier si allontanò con passo svelto. Sicuramente sarà il ragazzone beota tuttofare che aiuta i frati nei lavori più pesanti, pensò, “vada a farsi fottere, a momenti mi pigliava un infarto”, biascicò a mezza bocca guardandosi di tanto in tanto alle spalle e ripromettendosi di evitare quel tratto di bosco da ora in avanti. Fece ritorno in abbazia e non proferì parola a nessuno dell’incontro.
Nei giorni seguenti oltre a non fare progressi nel suo lavoro notò con disappunto che aveva un colorito pallido e ogni mattina al risveglio soffriva di mal di testa persistente e un sempre maggiore senso di spossatezza, non sapeva se imputarlo al troppo cibo o allo splendido Borgogna, ma il vero fastidio proveniva da un pungente dolore alla base della schiena, non riusciva proprio a capirne l’origine. Al tatto avvertiva come un solco, una specie di buco, ma gli venisse un colpo se riusciva a vederlo, l’unico specchio presente nella sua cella era talmente piccolo e inchiodato in alto che a malapena ci si poteva specchiare per radersi. Arrivato al penultimo giorno di permanenza, si ripromise che non avrebbe bevuto neppur un goccio di quel fantastico Borgogna che i frati servivano generosamente. Il pomeriggio recuperate in parte le forze, decise di fare una passeggiata nel bosco, sempre evitando accuratamente di finire nei pressi della casa del giardiniere o cos’altro fosse. Rinfrancato dall’aria fresca, dopo un paio d’ore, fece ritorno all’abbazia. Imboccato il sentiero che conduceva al grande ingresso, vide un taxi fermo nello spiazzo. Ne scese un uomo sulla sessantina, capelli quasi completamente bianchi, indossava un completo marrone che doveva aver visto tempi migliori, pensò subito che dovesse trattarsi dello studioso di cui gli avevano parlato. Didier rallentò il passo evitando momentaneamente l’incontro col nuovo arrivato. Era stanco e l’ultima cosa che desiderava era profondersi in stucchevoli quanto odiosi salamelecchi col nuovo arrivato. Pochi minuti dopo stava salendo le scale che lo conducevano alla sua cella quando notò che la porticina dei una cella che si trovava alcuni metri più in basso della sua era leggermente socchiusa. Lo strano simbolo che era stampato proprio sopra la maniglia lo aveva incuriosito fin dal primo giorno, non capiva cosa potesse avere a che fare con un’abbazia il simbolo di un drago. Inoltre il fatto che fino ad allora fosse stata sempre chiusa appariva come un invito irrinunciabile a dare una piccola sbirciatina all’interno. Spinse la maniglia, aprendo ancor di più la porta cosi che potesse guardare dentro senza dover entrare. All’inizio non vide nulla, i suoi occhi dovettero abituarsi all’oscurità per qualche secondo, finché non scorse la figura di un frate inginocchiato nell’angolo di questa che appariva come una cella stretta ma profonda. Si sporse ulteriormente per vedere meglio e apri quasi completamente la porta, fino a che la luce non irruppe nella stanza tanto da vedere chiaramente la figura di un frate incappucciato, e inginocchiato in un angolo con la testa china e le mani giunte. Non ebbe nemmeno il tempo di richiudere la porta e andare via che il frate si girò, lo guardò con due occhi che a Didier sembrarono due piccole spie rosse. Lo vide alzarsi e correre verso di lui, il frate lo spinse fuori dalla stanza con violenza, rischiando di farlo cadere giù dalle scale e dopo chiuse la porta con grande forza. Didier riuscì a stento a mantenere l’equilibrio e a reprimere un conato di vomito causato dal fetore nauseabondo che aveva sentito in quella frazione di secondo a contatto col frate. Non comprendendo appieno cosa fosse successo si allontanò turbato e tornò nella sua stanza, era troppo stanco per indagare ulteriormente, ma si ripromise di fare qualche domanda se gliene fosse capitata l’occasione. Quella sera a tavola conobbe lo studioso appena arrivato, un trombone saccente cui avrebbe volentieri dato un pugno in bocca pur di farlo tacere. Didier cercò di non bere, nonostante l’insistenza dei Frati, che stranamente quella sera erano più taciturni del solito. Pensò che forse il frate puzzone dagli occhi rossi potesse aver raccontato qualcosa. Decise che non gliene fregava un accidente e che non vedeva l’ora di mandarli tutti al diavolo e tornarsene a casa. Finse di bere il suo vino per non essere molestato dai frati e lasciò il tavolo prima della fine per non venire tormentato ulteriormente dalle domande del professore universitario. Salendo le scale ebbe un attimo di esitazione nel passare accanto alla porticina con il drago stampato sopra e corse nella sua stanza. Quella notte non riusciva a prendere sonno, era la prima volta da quando si trovava lì, e il suo unico pensiero era di scappare via, al diavolo i frati, il giardiniere muto e il loro fottuto delizioso Borgogna. Quando si svegliò, erano le due di notte, glielo disse l’orologio che teneva sul comodino, era contento di essersi svegliato, stava facendo un incubo terribile, era sudato, e aveva ancora in testa quel dannato frate dagli occhi rossi o quello che diavolo fossero. Si alzò per andare in bagno quando sentì un rumore, come un fruscio che proveniva dal corridoio. Non capiva cosa fosse, e non aveva il coraggio di aprire la porta. Dopo che non sentì più nulla, Didier, trovò la forza di aprire e guardare nel corridoio, all’inizio non vide capì cosa avesse generato quel suono, ma la vista della porticina totalmente aperta in fondo alle scale lo paralizzò completamente. Si era sempre considerato un uomo coraggioso, ma dopo l’episodio pomeridiano non era più sicuro di niente. Rientro, si vestì in fretta e uscì nel corridoio, nonostante la paura voleva capire che cosa stava accadendo. Uscì, richiuse piano la porta alle sue spalle e camminò rasente al muro, tenendosi il più lontano possibile dalla porticina aperta in fondo alle scale. Arrivato davanti a quella maledetta stanza, risentì quel fruscio provenire dall’alto, qualcuno stava scendendo nella sua direzione, fu assalito dal panico, era troppo lontano per tornare nella sua camera, l’unica possibilità era entrare nell’orrida cella. Con suo grande sollievo la stanza era vuota, eccezion fatta per un saio gettato per terra. Nascosto dietro la porta, vide passare una decina di frati incappucciati, scendevano verso il grande salone principale. Ormai deciso a non tornare indietro sui suoi passi afferrò il saio per terra e lo indossò. Provando ribrezzo per la terribile puzza di marcio che emanava, si calò il cappuccio sulla testa e seguì i frati. Guardando da una finestra che dalle scale dava sul chiostro, capì che si stavano raccogliendo tutti nella cappella principale. La cosa lo inquietava e incuriosiva allo stesso tempo, ma decise che avrebbe proseguito ugualmente. Superò non privo di ansia ma senza problemi il portone d’ingresso, il suo travestimento funzionava a meraviglia. Appena varcata la soglia della cappella, vide una scena che, senza dubbio lo avrebbe tormentato per il resto dei suoi giorni. La cappella era illuminata da tantissime candele e da un grosso braciere acceso, tutti i frati erano incappucciati, stavano in piedi immobili come statue e fissavano un altare che non era più quello che aveva avuto modo di vedere in quei giorni, adesso era coperto da un drappo nero ornato da disegni disgustosamente blasfemi. Ciò che lo colpì maggiormente era la presenza di due Frati in piedi, entrambi dietro l’altare. Erano completamente nudi, i loro orribili corpi erano straziati da profondi tagli e ferite, alcune di queste brulicavano di migliaia di piccoli vermi bianchi. Didier ebbe la sensazione di vedere due corpi viventi in decomposizione ed era sicuro che uno dei due fosse Fra Zèbèno, il suo capo solcato da profonde vene blu gorgonzola non concedeva dubbi. Recitando dei versi incomprensibili il frate accanto a Zèbèno prese dall’altare un coltello dalla lunga punta sottile. Didier era terrorizzato all’idea di venire scoperto, e nonostante il fetore che emanava, stringeva a se il saio con forza. Il frate si mosse in avanti, brandendo il coltello sopra la testa. Soltanto in quel momento Didier si accorse della presenza del professore universitario. Era proprio vicino al braciere, riverso su una lastra di marmo poggiata su di un altarino. Anch’egli completamente nudo, sembrava sul punto di essere immolato nel nome di chissà quale oscuro rito pagano. Didier chiuse per un attimo gli occhi più per ribrezzo che per paura, e sentì il rumore del coltello bucare la schiena del professore, pensò che un cacciavite che buca un divano di pelle avrebbe potuto produrre lo stesso rumore. Aprì gli occhi facendosi coraggio, e vide un fiotto di sangue sgorgare dalle costole del professore finendo sul viso e tra i denti neri di Fra Zèbèno, che rideva con uno sguardo perverso, un’espressione che mai aveva visto prima sul volto di un uomo. A Didier venne in mente il dolore alla base della schiena che lo aveva afflitto dal secondo giorno in quella fottutissima abbazia, le tessere del mosaico stavano trovando la giusta collocazione. La debolezza, il foro che al tatto non sembrava rimarginarsi, il frate dagli occhi rossi. Chiuse gli occhi e si portò una mano sul viso. A cosa serviva quel sangue? E soprattutto a chi era offerto? La cosa che lo tormentò di più fu il chiedersi quanto del suo sangue era stato versato senza che lui ne avesse memoria. Fu a quel punto che accadde qualcosa che lo lasciò stupito, quel turbinio di pensieri sommato alla vista di ciò che accadeva attorno a lui, lo destò di botto. Lo stato di torpore che si era impossessato della sua mente e del suo corpo dalla prima notte passata in quel postribolo di dannati stava svanendo. Si strappò di dosso il saio e corse verso l’altare. Né i due frati che dirigevano l’orrendo rito, né tutti gli altri, si accorsero di lui. Con un calcio rovesciò il braciere, urlando di rabbia e paura, con quanto fiato avesse in gola. Le braci ardenti investirono alcuni frati che stavano in prima fila, il loro saio prese immediatamente fuoco, le urla si sommarono a quelle di Didier che si avventò sul corpo del professore, scuotendogli la testa cercando di svegliarlo. Gli strillò di svegliarsi, di scappare, ma non ottenne nessuna risposta. Il gesto dello scrittore, e la caduta del braciere fece sì che tutti rimasero imbambolati dalla sorpresa. Fu uno dei due frati orrendamente sfigurati a fare la prima mossa, urlando qualcosa d’incomprensibile verso Didier, che alzando la testa vide due occhi rossi carichi di un odio così potente e antico che lo fecero rimanere senza fiato. Senza perdere altro tempo, lasciò il professore al suo destino e si girò per scappare via, approfittando del caos che era scoppiato a causa del braciere che cadendo aveva appiccato un incendio ai tendaggi. Didier riuscì a passare indenne tra le file dei frati che cominciavano a reagire sferzati dalle urla belluine che provenivano dall’altare. Arrivò davanti al portone, si rese conto che non sarebbe potuto uscire da lì, non c’era nessuna maniglia e sembrava chiuso dall’esterno, senza scoraggiarsi corse verso la navata laterale, e senza esitare coprendosi il volto con il braccio si lanciò contro una vetrata. L’impatto fu micidiale, Didier la attraversò e cadde all’esterno, si rialzò con le mani e il volto sanguinante, ma la paura non gli fece avvertire alcun dolore, sapeva solo che doveva correre, ed anche il più velocemente possibile se voleva riportare il culo intatto a casa. Le urla dei frati arsi vivi e dei due santoni in putrefazione gli rimbombavano nelle orecchie mentre cercava una via di fuga tra i corridoi bui dell’abbazia. Riuscì non senza inciampare almeno un paio di volte a raggiungere l’ingresso principale, aprì il portone e contro ogni sua più rosea aspettativa vide che l’auto noleggiata all’aeroporto di Parigi era ancora al suo posto, dove era sempre rimasta per tutta la settimana, sotto un enorme albero di castagne. Salì a bordo, ringraziò Dio per aver deciso giorni prima di lasciare le chiavi appese e le girò di scatto, la macchina parti al primo colpo, maledetti film, che ti fanno vedere sempre il contrario pensò, compì rapidamente manovra e imboccò a tutta velocità il sentiero che lo separava dal cancello principale, fortunatamente sempre lasciato aperto anche la notte. Dentro di se sentiva di avercela fatta, era a pochi metri dalla salvezza. Accelerò, teneva stretto il volante tra le mani. Il vetro che s’infranse in un trasparente mosaico gli sembrò una scena al rallentatore, la macchina che sbanda, la frenata, il corpo del giardiniere che finisce sul cofano, sembrava tutto lontano, lento, addirittura finto. Solo un miracolo evitò all’auto di finire la corsa contro un albero. La pala dell’inserviente si era conficcata a due centimetri dalla testa di Didier, contro il montante dell’auto, mentre il cervello, e Didier si stupì che ne avesse uno, era completamente spalmato tra i resti del parabrezza e del cruscotto. Scese di corsa dall’auto per liberarla dal corpo morto conficcato nella sua auto. Non fu facile rimuovere un colosso di oltre 150 kg, ma ce la fece, e questa volta rimessa in moto l’auto e ripartito a tutta velocità non trovò nessun altro nascosto nel buio a impedire la sua corsa verso la libertà.
Abbazia di Saint-Bertin, Francia
1 novembre 2012
Non pioveva e non c’era vento quella notte, a differenza di sessantaquattro anni prima Fra Raviex, non buttò giù la porta di Fra Zèbèno, non arrivò correndo o ansimando, per la verità non disse neppure una parola, nemmeno un gesto, il rumore delle sirene, le luci rosse e blu intermittenti che entravano dalle finestre non lasciavano spazio alle parole. I due frati seguirono la stessa strada, di quella notte di tanti anni prima, quando invece della polizia ai cancelli c’erano gli invasori tedeschi. Quelli che un tempo erano stati due uomini impauriti, ma già corrotti dal male, adesso erano due esseri immondi che la paura la incutevano senza subirla. Spostarono la grande pietra e scesero nel buio, nessuna torcia a rischiarare il loro cammino, la vista dei loro occhi rossi vomitati dall’inferno vedeva ben oltre l’oscurità. La cripta era rimasta immutata nel tempo, il disfacimento e la corruzione avevano già raggiunto il loro apice da tanto tempo, niente sarebbe potuto cambiare in peggio, Fra Zèbèno e Fra Raviex ancora una volta si preparavano a entrare in un oscuro letargo in attesa di tempi migliori. Scesero l’ultimo gradino e si avviarono verso il grande giaciglio nero, insieme con fatica tolsero la lastra di marmo che copriva il grande sarcofago. L’essere che era al suo interno girò gli occhi senza palpebre per fissarli, il suo corpo, o meglio il suo scheletro era ricoperto parzialmente da muscoli e da parti di pelle, le vene e i tendini rivestivano un ammasso di organi in via di formazione, i due frati non riuscivano a sostenere lo sguardo di quell’essere che li fissava con tutto l’odio del mondo. Non poteva parlare, la sua bocca era priva di lingua e i denti totalmente formati non avevano labbra a proteggerli. Fra Raviex disse: “Oscuro Signore, abbiamo fallito, non siamo riusciti a donarle tutto il sangue di cui aveva bisogno, torneremo nel nostro oblio, in attesa che anche questa tempesta passi”. Insieme a Fra Zèbèno richiuse il sepolcro ed esattamente come tanti anni prima occuparono posto nelle loro gelide tombe. Stavolta fu Fra Zèbèno a pronunciare le ultime parole prima di sprofondare nel buio. “Torneremo prima di quanto immagina, oh mio Signore della notte, abbiamo ripulito ogni traccia, fatto sparire il corpo e cancellato ogni prova, torneremo, e dopo tanti secoli finalmente risorgerà”. Buio.
Boulogne-Sur-Mer, Francia
10 Ottobre 2013
La segretaria bussò dolcemente alla porta della preside, entrò come di consuetudine senza aspettare una risposta e lascio una lettera sulla scrivania. La preside prese la busta, inforcò gli occhiali e lesse il mittente “Abbazia di Saint-Bertin”, fece una smorfia di stupore e continuò a leggere. “Gentile Preside della Scuola Media di Saint Patrick, invitiamo Lei, il corpo docente e gli alunni della vostra scuola presso la nostra abbazia per una settimana di totale riposo…<Affinché la vostra mente e il vostro corpo si riconcilino con la natura, sul sentiero del Signore>"...
Davide Musso