La sceneggiatura è costruita come un climax in cui il livello della presenza dell’arte nella vita reale aumenta progressivamente, con esiti dal surreale al grottesco: dagli iniziali lapsus freudiani sui nomi delle persone e dei rispettivi personaggi dei libri, alla concreta presenza dei personaggi nell’esistenza reale dell’autore – i quali provano persino ad illuminarlo sulle mistificazioni della sua vita privata – concludendosi nel tripudio finale di tutti i personaggi creati dalla sua penna che accorrono ad applaudirlo durante l’assegnazione di un’onorificenza conferitagli dall’università che da ragazzo lo aveva cacciato. Una cosa che, naturalmente, non ha mai avuto luogo. Il risultato finale di 96 minuti di trama priva di avvenimenti eclatanti e tuttavia complicatissima? Un film esilarante, pieno di brio, in cui i due piani del reale e della finzione si mescolano come un mazzo di carte in mano ad un prestigiatore. Per non parlare della legittima domanda che salta in subito in mente: quanto c’è di Allen in Block? Giudicate voi. Woody Allen nel ’97 aveva già tre matrimoni alle spalle, e una quarta moglie – la figlia adottiva Soon Yi, di ben 35 anni più giovane – si sarebbe aggiunta lo stesso anno.
Da un punto di vista “estetico”, anche la visione di questo lungometraggio appare frammentata e discontinua: il regista newyorkese utilizza un montaggio frenetico, pieno di stacchi sulla stessa inquadratura; si aggiunga uno spostamento temporale continuo attraverso i flashback e le visualizzazioni dei racconti (tra le scene sicuramente più divertenti). Allen usa la macchina da presa e il montaggio come uno scrittore userebbe la biro e la punteggiatura. Alla fine Harry riesce a vincere, grazie ai suoi personaggi, il blocco che lo attanagliava; il suo prossimo romanzo tratterà di «un personaggio che è troppo nevrotico per funzionare nella vita, ma che funziona solo nell’arte». Perfetta chiusura di scatole cinesi. L’arte si nutre di vita e la vita alimenta l’arte.