Dr. Sanderson: Che cosa fate, signor Dowd?
Elwood P. Dowd: Oh, vado con Harvey nei bar, beviamo qualcosa, ascoltiamo la pianola, e allora i visi di tutta quanta la gente si voltano verso di me, e sorridono, e poi dicono: “Noi…noi non vi conosciamo amico, ma siete un gran simpaticone”. Harvey ed io ci sentiamo come riscaldati in quei momenti. Siamo entrati come estranei, e ci troviamo fra amici. Ci vengono vicino, si siedono, beviamo insieme, e parlano con noi. Ci dicono delle immense, terribili cose che hanno fatto, delle immense, stupende cose che faranno…le speranze, i rimpianti, gli amori, le avversioni, tutto immenso: perché nessun uomo porta mai niente di piccolo in un bar. Infine, io li presento ad Harvey, e lui è più grande di qualsiasi cosa che gli altri offrano a me. E quando se ne vanno, sono molto impressionati. Difficilmente si fanno rivedere, ma questa…questa è invidia, miei cari. L’invidia alberga anche negli uomini migliori, ed è un peccato, non è vero?
Elwood P. Dowd: Vedete, anni fa mia madre era solita dirmi, diceva: “In questo mondo, Elwood, devi essere –mi ha chiamato sempre Elwood- in questo mondo, Elwood, devi essere o molto astuto o molto amabile.” Io preferivo l’astuzia, ma consiglio l’amabilità. Vi autorizzo a citarmi.
Elwood P. Dowd è un simpatico signore di mezza età, galante e un po’ eccentrico, che trascorre le sue giornate bevendo nei bar insieme ad Harvey, un immaginario coniglio bianco, alto quasi due metri, che lo accompagna sempre e che solo lui riesce a vedere. Ma la sorella dell’uomo, Veta Louise, non condivide affatto un’amicizia tanto assurda, anche perché finisce sempre per scombinare i progetti matrimoniali di sua figlia Myrtle Mae. Le due donne, esasperate dall’invisibile ma ingombrante presenza di Harvey, decidono allora di togliere Elwood dalla circolazione facendolo ricoverare nella clinica psichiatrica del dottor Chumley. Tuttavia, a causa di un divertente malinteso, è la stessa Veta Louise ad essere scambiata per matta e venire internata. Sarà proprio Elwood, con la sua bonaria purezza e con l’aiuto del fido Harvey, a sbrogliare il buffo pasticcio.
Il soggetto di Harvey nasce originariamente dalla fantasia e dalla penna della giornalista statunitense Mary Chase, autrice, nella sua lunga carriera, di numerose opere teatrali. Scritta nel 1944, la piéce che ha per protagonisti Elwood e il suo amico immaginario (letteralmente descritto come un “pooka” – creatura della mitologia celtica, conosciuta anche come “goblin”- avente le sembianze di un coniglio antropomorfo alto “sei piedi e tre pollici e mezzo”) si presenta come una gustosa commedia dai toni vivaci e raffinati, carica di personaggi e situazioni spassose ma al tempo stesso capaci di far riflettere su tante piccole, grandi verità della vita. La messa in scena dell’opera fu il maggior successo ottenuto dalla Chase: inaugurate il 1 novembre 1944 a Broadway, le rappresentazioni di Harvey proseguirono sino al 15 gennaio 1949, quando giunsero infine a conclusione dopo aver collezionato un’ampia varietà di interpreti e ben 1775 esibizioni in tutto. Se l’accoglienza ottenuta presso il pubblico si dimostrò a dir poco calorosa, la critica stessa non rimase indifferente al fascino dello spettacolo, tanto che già nel 1945 la scrittrice americana ricevette il prestigioso Premio Pulitzer per il Teatro. La versione di Harvey per il grande schermo riesce da parte sua a sfruttare in modo significativo le differenti potenzialità espressive messe a disposizione dal mezzo cinematografico: l’operazione di trasposizione mediatica, compiuta nel 1950 sotto la direzione di Henry Koster, ha infatti il merito di non essersi limitata a rappresentare una pedissequa conversione della vicenda originale, ma risulta anzi un interessante arricchimento che dona davvero una nuova dimensione al lavoro della Chase, grazie alla costruzione di un pregevole equilibrio tra elementi di continuità ed elementi di innovazione.
Per quanto riguarda in particolare il primo aspetto menzionato, ossia quello della continuità, esso trova evidente riscontro a partire dalla selezione degli attori, buona parte dei quali provengono direttamente dall’esperienza di Broadaway. E’ questo il caso di Josephine Hull (Veta Louise Simmons), di Victoria Horne (Myrtle Mae Simmons), di Jesse White (Marvin Wilson) nonché dello stesso James Stewart (che aveva impersonato il signor Dowd nel 1947). Proprio la scelta del cast si dimostra d’altronde uno dei maggiori punti di forza dell’intera produzione, tanto che la Hull, praticamente perfetta nei panni della logorroica ed esaurita signora Simmons, otterrà il Premio Oscar come “migliore attrice non protagonista” alla cerimonia del 1951, mentre James Stewart, alla sua quarta candidatura, sarà battuto come “migliore attore protagonista” da José Ferrer (vincitore con Cyrano di Bergerac). Ciò non toglie, tuttavia, che la sua interpretazione resti ancora oggi straordinariamente carismatica, disegnando un Elwood P. Dowd affabile ed elegante, pieno di vita e di buoni sentimenti verso chiunque, così genuino e dolcemente fuori dal mondo da risultare semplicemente irresistibile: la sua sincera cordialità, la sua spontanea predisposizione all’ascolto di tutto ciò che ogni persona porta dentro di sé, il suo brillante senso dell’umorismo, lo rendono un personaggio memorabile e contagiosamente positivo, attorno al quale si snoda, con grande efficacia, quell’ironico dualismo tra insana normalità e salutare follia che costituisce uno dei grandi temi dell’opera.
Per quanto concerne poi gli elementi innovativi introdotti dalla pellicola, questi risiedono nelle specifiche modalità di rappresentazione offerte dal mondo del cinema. Non è esagerato affermare, a tal proposito, che Harvey costituisce un piccolo capolavoro di montaggio. L’accorta direzione tecnica riesce infatti a sfruttare in modi sempre vari ed intriganti le potenzialità espressive del medium cinematografico: in certi casi, essa accompagna con movimenti fluidi e aggraziati le performance degli attori, sottolineandone gli aspetti grotteschi e caricaturali, oppure crea un aperta dissonanza tra immagini e parole con evidenti esiti umoristici: esemplari alcune sequenze, come quella in cui il “folle” Elwood ascolta il Dr. Chumley, lo psichiatra, che a lui si confessa stendendosi sul lettino destinato ai pazienti; oppure la scena in cui il Dr. Sanderson si vanta dinnanzi all’assistente Kelly dell’efficacia del suo metodo psicologico, mentre in realtà ha completamente confuso la situazione ricoverando la persona sbagliata. In altri momenti, invece, la guida registica assume una vera e propria funzione strutturale, divenendo essa stessa parte integrante e necessaria del racconto: sono queste le occasioni che meglio testimoniano l’importanza del ruolo del misterioso Harvey, il vero protagonista dell’opera, a cui la bravura di Koster regala una fisicità ed una palpabilità che prima era di fatto gli erano precluse, raffigurandolo al meglio nella sua invisibile eppur costante presenza al centro della scena. L’occhio della telecamera riesce dunque a regalare uno spettacolo sempre congeniale alle esigenze narrative dell’opera, risultando capace, al tempo stesso, di seguirne i ritmi come anche di dettarne i successivi sviluppi.
Harvey costituisce nel complesso una produzione deliziosa e raffinata, una commedia degli equivoci classica eppure dallo stile unico: divertente, spiritosa, ma anche delicata e romantica, capace di commuovere e far riflettere su quanto sia spesso preferibile un po’ di sana, onesta pazzia, a quella normalità spossante e intransigente che è l’unica autentica follia dei giorni nostri. L’eccezionale galleria di interpreti, l’ottima regia, i brillanti dialoghi, e le numerose battute memorabili, rendono la pellicola un cult dedicato a qualunque spettatore voglia lasciarsi cullare dalla sua spensierata poesia.
Titolo originale: Harvey
Anno: 1950
Paese: USA
Durata: 104
Colore: B/N
Genere: Commedia
Regista: Henry Koster
Cast:James Stewart; Josephine Hull; Victoria Horne; Jesse White; Peggy Dow; Charles Drake; Cecil Kellaway; William Lynn.
Valutazione: 4 su 5 – Buono
Davide “Vulgar Hurricane” Tecce
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