Hasekura Tsunenaga: il Samurai che Incontrò un Re

Creato il 28 ottobre 2013 da Dietrolequinte @DlqMagazine

Teresa Silvestris28 ottobre 2013

Il 28 ottobre 1613, esattamente quattrocento anni fa, un vascello costruito in poco più di un mese, il San Juan Bautista, salpava dal porto di Tsukinoura, Giappone, per raggiungere la Nueva España (Messico) e l’Europa. A bordo vi erano un frate francescano spagnolo, Luis Sotelo, un samurai al servizio del daimyō Date Masamune, Hasekura Tsunenaga detto Rokuemon, e un equipaggio di oltre centocinquanta uomini tra vassalli, religiosi e mercanti. La Missione Keichō, seconda dopo quella partita da Nagasaki nel 1582, si apprestava a raggiungere l’altra metà del globo terrestre per visitare le grandi corti cattoliche del tempo, quella di Filippo III di Spagna e quella di Papa Paolo V, e dissipare così ogni dubbio circa i reali sentimenti dei governanti giapponesi nei confronti della Chiesa di Roma.

La storica impresa, un po’ ai margini delle trattazioni manualistiche, è narrata in uno dei romanzi più intensi dello scrittore cattolico giapponese Endō Shūsaku (1923-1996): Il samurai (Luni Editrice, 2006). Vincitore del premio Noma, esce nel 1980 largamente acclamato ma profondamente frainteso. Viene considerato infatti l’avvincente racconto della famosa spedizione mentre l’intima vicenda del protagonista Hasekura, sulla quale l’autore avrebbe voluto che l’attenzione dei lettori si catalizzasse, passò, con suo immenso rammarico, quasi inosservata. E, a onor del vero, non poteva forse essere altrimenti. Il samurai si presentava anomalo a un pubblico che con Uomo giallo (1955), Uomo bianco (1955) e soprattutto Silenzio (1966) aveva assistito a laceranti drammi interiori e a impetuose lotte ideologiche fra i personaggi. In questo romanzo non c’era, per così dire, contenzioso. Padre Velasco (Luis Sotelo) e Hasekura avevano in comune solo un itinerario e una destinazione. Per il resto, il primo incarnava una Chiesa troppo pronta a compromettersi con gli interessi del mondo, un chierico spregiudicato che crederà, con questa missione, di gettare le basi della sua brillante carriera in Giappone; il secondo era invece quell’uomo «dagli occhi infossati, zigomi sporgenti, di poche parole, che odora di terra, più simile a un contadino che a un samurai» a cui il codice d’onore imponeva obbedienza e fedeltà al suo Signore. Dalla convocazione da parte di Tokugawa Ieyasu al lungo e non facile viaggio in mare, dalla fredda accoglienza riservata agli ambasciatori alle macchinazioni di Velasco, dai momenti di sconforto collettivo al fallimento della missione stessa, le pagine de Il samurai sembrano in effetti contenere due romanzi in uno. I sogni di gloria del sacerdote e l’incessante interrogarsi del samurai sono due voci alterne e svincolate l’una dall’altra, senza possibilità di cadere, neppure per caso, in una discussione. Questo non per un errore di messa a fuoco dell’autore ma perché all’atto del concepimento della sua opera, Endō ne ha già chiara la finalità: tratteggiare la figura del debole, distinguerla da quella dei potenti, spiegarne il destino.

All’inizio il romanzo fu intitolato Ō ni atta otoko (l’uomo che incontrò un re) giocando sull’incontro di Hasekura con Filippo III di Spagna e, dopo la conversione per motivi politici, con il Cristo crocifisso. Un sovrano maestoso e un coronato di spine diventeranno l’ossessione più grande del samurai. Chi, come lui, era stato educato alla dignità e alla bellezza non poteva provare simpatia per un uomo con il capo riverso, emaciato e sconfitto. Eppure tutti si ostinavano a chiamare quell’uomo “Signore” e lui stesso, ricevendo il battesimo per assicurare un buon esito alla spedizione, aveva dovuto accettarne la presunta regalità. In questa epopea della solitudine che si conclude con un totale insuccesso umano e materiale, Hasekura personifica quel momento in cui la vita, sperimentando l’abbandono, sembra perdere tutto il proprio valore e nella perdita paradossalmente lo ritrova. Né Filippo III né Papa Paolo V crederanno alle prospettive annunciate da Velasco/Sotelo e al momento di tornare in patria gli ambasciatori realizzeranno di essere stati solo delle marionette nelle mani del frate. Uno di loro si toglierà la vita per lavare il disonore. Hasekura e gli altri metteranno di nuovo piede in una terra che oramai li considera dei traditori. Nessuno, in nessun angolo del mondo, avrebbe potuto tendere la mano della salvezza. Ecco allora che lo sguardo si rivolge altrove, in alto, verso quel “potente” vinto che però s’innalza al di sopra di tutti i poteri della terra. È il Crocifisso, accettato per convenienza e rifiutato un istante dopo, l’unico ora a condividere la stessa umiliazione.

Il samurai è considerato uno shishōsetsu, cioè quel particolare romanzo autobiografico giapponese in cui lo scrittore non si limita a descrivere gli eventi della propria vita ma indaga sul significato profondo delle sue azioni, anche quelle più riprovevoli. Si vede nella figura di Hasekura il giovane Endō che nel dopoguerra, grazie a una borsa di studio, approda in Francia per scoprire che le inconciliabili differenze tra la propria cultura e quella occidentale non trovano risoluzione nel suo essere cristiano cattolico dall’infanzia. Hasekura è lo studente che sente forte lo ihōjin kunō, il tormento dello straniero, non immaginando nessun’altra via d’uscita se non quella della rinuncia alla propria identità. Ma ne Il samurai c’è soprattutto la critica alle istituzioni e al sistema, i veri nemici dell’individuo, incapaci di praticare la compassione e di garantire la giustizia. Il fallimento della Missione Keichō rappresenta il fallimento dell’idea che il progresso di un paese possa essere attuato attraverso il sacrificio di chi si riconosce in una determinata cultura e in precisi valori. È questo il punto centrato con successo da Endō e il fatto che Il samurai sia stato a lungo tra gli “incompresi” si è rivelato dopotutto provvidenziale: l’ennesima censura ci avrebbe tolto il gusto di una lettura robusta e appassionante.


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