Oggi mi piace ricordare Gabo (mi unisco all'infinita schiera di lettori che osano - con irriverente e affettuosa confidenza - chiamarlo come un amico) non per i suoi romanzi o per i racconti meravigliosi che ha saputo donare al mondo, ma per il suo modo di considerare quello che faceva, cioè scrivere.
Saper scrivere, diceva Márquez, non è affatto un dono di natura. Per trasformare un'intuizione in una narrazione che sia in grado di affabulare il pubblico ci vuole infatti un solo, elementare requisito: non cominciare mai a scrivere "se non si è convinti di essere migliori di Cervantes!".
Márquez ci ha lasciato una preziosa eredità: parole che lo consegnano all'immortalità, storie che non invecchieranno mai. E - nonostante l'affermazione su Cervantes - l'insegnamento che la virtù più importante per uno scrittore è l'umiltà. Insegnò nella sua scuola di cinema che "[...] è necessario esprimersi con la franchezza più assoluta; quando qualcosa non ci convince, bisogna dirlo; dobbiamo imparare a dirci la verità in faccia e a lavorare come se stessimo facendo una terapia di gruppo".
Oggi è così, dunque, che voglio ricordare Gabo: un grandissimo Maestro pronto a sorprendersi perché i suoi studenti raccolgono la sfida e creano nuove storie da raccontare. Ma soprattutto un grandissimo scrittore, capace di soffiare la magia in quella realtà "dura come il legno", eppure di restare umile e chiedersi per tutta la vita: "Che razza di mistero è questo che fa sì che il semplice desiderio di raccontare storie si trasformi in una passione tale che un essere umano è capace di morirne, morire di freddo e di fame o di quel che sia pur di fare una cosa che non si può né vedere né toccare e che, in fin dei conti, in realtà, non serve a nulla".
Hasta siempre, Gabo.