Anno: 2012
Nazionalità: USA
Durata: 100′
Genere: Horror/Thriller
Regia: Mark Tonderai
Distribuzione: Eagle Pictures
Uscita: 23 Maggio 2013
Mark Tonderai arriva alla sua seconda prova da regista, dopo l’esordio avvenuto nel 2009 con Hush: come per la pellicola di debutto, anche in questo caso si tratta di un thriller/horror psicologico. Hates – House at the End of the Street, basato su una novella di Jonathan Mostow e uscito negli Stati Uniti a settembre, verrà proiettato nelle sale italiane a partire dal 23 maggio.
La trama vede la teenager Elisa (Jennifer Lawrence) e la madre divorziata Sarah (Elisabeth Shue) trasferirsi in una casa immersa in un Parco Nazionale; non ci vorrà molto affinché le due vengano a conoscenza delle voci sinistre che girano intorno all’abitazione vicina, apparentemente abbandonata e teatro di un violento, doppio omicidio quattro anni prima.
Girato a Ottawa, il film non brilla come ci si aspetterebbe, visto anche il cast a disposizione di Tonderai; bastano pochi minuti per avvertire tutti i luoghi comuni dell’ horror/thriller psicologico di marca americana – scontro generazionale tra madre e figlia, attrazione fatale verso il maudit di turno (Max Thierot): il che non sarebbe nemmeno un difetto, se appoggiato da interpretazioni importanti e da una struttura quantomeno stimolante, pur nella sua linearità. La pellicola, invece, crolla proprio dove dovrebbe cadere, fallisce nel suscitare quei saliscendi emozionali di cui, invece, è ripiena in maniera forzata e un po’ ingenua; la sensazione del “so già cosa accadrà nella scena successiva” ricorre continuamente, e lo spettatore attento non faticherà ad accorgersene. La direzione di Tonderai, pur in un interessante alternarsi di piani sequenza e controcampi, manca di personalità, ed è in parte comprensibile vista la breve filmografia del regista; era lecito, in ogni caso, aspettarsi qualcosa di più.
La prova di Jennifer Lawrence appare piuttosto incerta, ingabbiata in uno stereotipo trito e ritrito: la promettente attrice americana non bissa le grandi prove offerte con Hunger Games e Il Lato Positivo, e la rigida struttura su cui si adagia il film non l’aiuta di certo. Stesso discorso per Elisabeth Shue, mamma bigotta e puntualmente redenta alla fine della pellicola. Molto meglio, invece, Max Thierot, che riesce a valorizzare e a dotare di un’anima duplice e convincente il proprio personaggio.
Discrete la fotografia di Miroslaw Baszak (300) e le musiche ad opera di Theo Green (che aveva già collaborato con Tonderai in Hush). Non basta questo, tuttavia, per salvare dalla ultramediocrità un film telefonato, stracolmo dei cliché del genere – per giunta non valorizzati – e che non fa nulla per sorprendere lo spettatore: la rivelazione degli ultimi 10 minuti, sbrigativa e frammentaria, è l’immagine che riassume un film di cui non se ne sentiva il bisogno.
Guglielmo Bin