Tra i casi rimasti pendenti di scienziati e filosofi e scrittori insigni che senza uscire dai loro laboratori e dalle loro biblioteche approvavano l’operato di Mussolini e Hitler e Stalin e Franco, il dossier intitolato a Martin Heidegger (1889-1972) si distingue per la regolarità con cui negli anni ingrossa la sua mole di nuovi contributi e nuove polemiche. La novità dell’ultima ora è costituita dalla pubblicazione dei “quaderni neri”, cosiddetti a causa delle colorite esternazioni su ebrei e nazionalsocialismo che vi si possono leggere, tutte di pugno di Heidegger, tutte scritte tra il 1930 e il 1941, e tutte rigorosamente confidenziali.
Dalla lettura di un bel libro di Franco Volpi e Antonio Gnoli (L’ultimo sciamano. Conversazioni su Heidegger, Bompiani, pp. 135, euro 6,80) si ricava l’impressione che Heidegger abbia fatto di tutto pur di non prendere una posizione politica inequivocabile, che poteva costargli cara. Negli anni Trenta si dibatte tra un filosemitismo privato, circoscritto all’ambiente universitario, e un filonazismo di facciata. Se da una parte tradisce la fiducia riposta in lui da quanti si oppongono a Hitler, dall’altra delude gli ideologi del nazismo che meditano di cooptarlo fra le loro fila. “Fu solo dopo aver conseguito la libera docenza che mio padre dichiarò apertamente ciò che pensava” dichiara il figlio Hermann. Figlio di un sagrestano, Heidegger si era finto cattolico per poter ultimare gli studi. Al protestantesimo si converte pro forma, per accontentare la moglie-badante.
Quel che disturba di questa linea di difesa, sostenuta da Hans Georg Gadamer e da Hannah Arendt, è la tesi che Heidegger si sia trovato nella sciagurata necessità di aderire al nazismo e che nessuno in quel frattempo lo abbia aiutato a uscirne senza perdere la faccia. Ma un modo di agire vergognoso riserva tutt’al più una scappatoia di fortuna, non una via d’uscita onorevole.
Anziché aggiungersi al coro dei detrattori o dei supporter del professor Heidegger, Volpi e Gnoli preferiscono documentare gli effetti del suo carisma personale su un campione selezionato di storici e filosofi e scrittori che furono in gioventù, con l’unica eccezione di Armin Mohler, allievi o amici di Heidegger.
Se un merito va riconosciuto a L’ultimo sciamano, è di aver mostrato che è impossibile parlare del carisma di Heidegger senza dire qualcosa sulle persone che ne furono toccate. Ripensando all’incantamento che Heidegger esercitava su di loro, né il filosofo Gadamer né lo scrittore Ernst Jünger né lo storico Ernst Nolte sembrano rendersi conto che il segreto di una chiave che spalanca tutte le porte sta (anche) nella docilità con la quale le porte rispondono a quel magico “sesamo apriti”. Rientrano nel fenomeno dell’ambivalenza di Heidegger persino i modi contraddittori di interpretarla. “La sua visione dell’università, con il tentativo di un cambiamento radicale che le voleva imprimere, presenta molte analogie con l’esperienza studentesca del Sessantotto” (Nolte). E Gadamer, sul medesimo argomento: “La sua speranza di promuovere un rinnovamento dell’università cavalcando il movimento nazionalsocialista fu un’incredibile ingenuità, tanto più per uno come lui, privo di qualsiasi nozione di che cos’è e di come funziona un apparato burocratico”. L’affabilità di Gadamer fa molto contrasto con la iattanza di Nolte, il quale parla di Heidegger come un mediatore finanziario che cerchi di piazzare azioni di dubbio avvenire.
Tutti gli ex discepoli di Heidegger ammettono che la questione degli effetti perversi del suo carisma si può discutere, ma puramente come questione. Si fa sentire in loro, incancellabile, il debito di riconoscenza verso l’intelligenza che a ciascuno rivelò la propria. Persino quando il contegno di Heidegger perviene a un clou oltrepassato il quale non resta che condannarlo, Gadamer e soci ricadono nel loro abituale stato di deferenza. È come se non sopportassero di veder detronizzato il loro sovrano. Ogni passo falso in cui incorre Heidegger suscita una pietà e uno sgomento dieci, cento volte più virulenti che se l’avessero compiuto altri uomini. La compassione prende il posto della perplessità e dell’indignazione: rinascono gli antichi lealismi.
“Non era un cuor di leone” commenta Gadamer, con caratteristica litote attenuativa. Allorché Volpi gli rammenta un po’ provocatoriamente che si sta parlando del più grande filosofo del ventesimo secolo, Gadamer annuisce sorridendo e spinge avanti la sedia, soddisfatto di constatare che i suoi interlocutori sanno esattamente come stanno le cose. Da buon tedesco, il nazismo di Heidegger lo ferisce; al tempo stesso Gadamer si compiace che, malgrado l’inconveniente, i due intervistatori siano fermi nell’ammirazione dell’opera del maestro.
La deposizione più interessante è quella di Hermann Heidegger. Con lui si esce dal campo dell’indagine storica e si precipita a capofitto nello psicodramma familiare. In una postilla conclusiva, Hermann rivela di non essere figlio di Heidegger. Ammissione tardiva che pur nella sua dolorosità e verità scopre l’ennesima mistificazione di cui si compone il romanzo della famiglia Heidegger. Quattordicenne, Hermann apprende di non essere un Heidegger, anche se da quel momento in poi le sue scelte saranno quelle di chi si ostina a dare credito a un’informazione contraria. Ormai uomo maturo e rassegnato all’anonimato, Heidegger gli affida bruscamente il lascito degli scritti, “come se fossi un suo allievo”. A cinquant’anni suonati Hermann si ritrova promosso a figlio. Ironia della sorte, il suo padre naturale, Friedler, ha un nome che è l’anagramma di quello della madre, Elfride. Charles Dickens ci avrebbe scritto una saga, su una storia così.
Marco Cavalli
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 22 – Marzo 2015.
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