Il rapporto madre-figlia è spesso terreno fertile di scontro, e ci sono esempi straordinari in questo senso nei libri della Lessing o in quelli della Jelinek, scritture dove la tensione femminile contro femminile raggiunge il massimo grado. Ma nel caso di Lezioni di tenebra il discorso è reso diverso e complesso dal fatto che la madre è una reduce dai campi di concentramento, una delle poche persone che, per qualche evento fortunato o per loro abilità, sono riuscite a emergere dall’orrore e a riprendere una vita normale. La parola normale suona un po’ strana in questi casi perché l’aver visto il fondo dell’abisso, l’aver conosciuto a che livelli di abiezione può giungere l’uomo segna per sempre e non può non condizionare la vita. La vita comunque della madre dell’autrice riprende all’insegna di un vitalismo che connota questa figura e di un decisionismo che l’ha sempre caratterizzata da quando, giovanissima, ha deciso di scappare dal suo paese polacco per non fare la fine degli altri suoi familiari ebrei. Le vicende della sua vita, e anche i tragici internamenti nei campi di concentramento, la videro sempre fattiva e risoluta, capace di destreggiarsi in situazioni estreme con grande abilità e astuzia. È una figura che risulta nitida nei suoi tratti essenziali, anche se i fatti e gli avvenimenti della sua vita li conosciamo solo in parte né l’autrice, per evidenti motivi, è in grado di narrarceli. Il romanzo che già nel 97 era uscito parzialmente pubblicato da Mondadori e ora esce per Guanda è incentrato proprio sul desiderio di ricostruire in qualche modo questi avvenimenti, di elaborare il vissuto familiare, di dare forma e sfumature a racconti generici e ad episodi che la madre a bocconi e con inevitabili elissi ha narrato. Tutto è reso più complesso dall’inevitabile fenomeno che l’eccessiva vicinanza in un certo senso esaspera la sensibilità e proprio con le persone con cui vorremmo di più comunicare questo risulta difficile. In realtà, pur in questa situazione di grande difficoltà comunicativa, resa per qualche aspetto ancora più esasperata dal fatto che Helena da piccola è stata allevata da una “tata” e quella confidenza di pelle che si crea nella prima infanzia con la madre in parte è andata perduta, in realtà dicevo la comunicazione avviene e il progressivo disvelameto di quegli anni bui – che culmina nel viaggio che le due donne fanno in Polonia sui luoghi dell’infanzia della madre e dei campi di sterminio – ha luogo, seppure in mezzo a molte reticenze e difficoltà.
Il romanzo, che nella sua struttura supera gli steccati del tradizionale romanzo, è al contempo un diario-meditazione sui rapporti con la madre e anche una sorta di atlante della psicologia dell’autrice che percorre in propri snodi emotivi ed esistenziali attraverso un’ impietosa e intelligente narrazione, evidenziando i momenti essenziali che ne hanno caratterizzato la fisonomia dell’anima. Ed è anche una riflessione di quello che ha significato l’Olocausto per le generazioni che sono venute dopo, generazioni che non l’hanno conosciuto in forma diretta ma attraverso quella via traversa e ambigua che passa attraverso i corpi “come se si trasmettesse per via placentare, organica, dal corpo della madre a quello dei figli”. La conoscenza dei fatti, la ricostruzione degli avvenimenti e la comprensione dei momenti salienti della vita della madre costituiscono per qualche aspetto anche un antidoto a quelle che possono esser definite “lezioni di tenebra”, contro cui l’autrice lotta durante tutta la sua vita. In ogni madre c’è la volontà di trasmettere non tanto e non solo i fatti che hanno segnato la sua vita ma in qualche modo anche la lezione che ne ha tratto. E in questo fallisce il messaggio educativo, questo genera uno scontro generazionale inevitabile. “Mia madre non si fida nemmeno di se stessa. Preferisce la moltiplicazione degli allarmi all’idea di una mossa sbagliata, di un errore fatale… non deve solo educare sua figlia a non sbagliare, deve impedire che sbagli, qui e ora… Per questo mia madre non educa ma addestra”. L’addestramento si differenzia dall’educazione perché vuole trasformare ciò che insegna in riflesso, per minimizzare le possibilità che si incorra in errori. Ma è evidente che ognuno deve fare il proprio percorso e le idee sono il frutto delle sue personali esperienze. Di generazione in generazione la vita viene ridiscussa e le conclusioni a cui siamo giunti sono approdi in qualche modo solo nostri. Non si può insegnare molto, eppure in qualche modo insegnare è necessario. Qualcosa comunque si veicola col sangue, qualcosa si trasmette sempre in modo diretto, ad esempio certe immotivate paure dell’autrice da bambina oppure l’idiosincrasia per le file come quella fatta per il rinnovo del visto di soggiorno oppure il rapporto che l’autrice ha con il cibo. “Forse è per questo che vorrei sapere se quella fame me l’abbia attaccata lei, se mi ha passato la sua fame, così come oggi, pur chiamandomi spesso “la mia cicciona” mi passa spesso le sue mezze cotolette, le sue patate, i suoi mezzi piatti di pasta, vorrei sapere se mi ha passato la sua fame da mezza morta per superare quella mezza morte e riconquistare il carattere, la personalità, la psicologia individuale di prima della fame. Me lo chiedo. Me lo chiedo per non dover pensare che l’esperienza dei campi di concentramento non solo non sia “altissima”, ma non sia affatto un’esperienza, che non si impari niente, che non si diventi né più buoni né più cattivi, e una volta che è passata è passata, ritratta nei più remoti recessi dell’anima dove logora, opprime, persiste. Forse logora opprime e persiste perché non può essere volatilizzata del tutto ma, informe com’è, informe come sarà per sempre, non incide sul comportamento e sulla persona di chi è tornato nella norma, è tornato nel tessuto sociale, è tornato nel mondo dei vivi e dei sazi che hanno diritto di essere vivi e sazi. Me lo chiedo perché non riesco a rassegnarmi a quanto mi sembra di aver potuto rilevare con tanta evidenza e tante volte dall’esempio più vicino, da mia madre”. La generazione che nel dopoguerra ha raccolto l’eredità di chi l’orrore lo ha visto in prima persona si è sempre chiesta che rapporto poteva avere con la guerra che non aveva conosciuto direttamente ma attraverso i racconti dei genitori. Una rielaborazione dei fatti serve evidentemente perché solo in questo modo ci immunizziamo, auspicabilmente, dal compiere altri orrori – anche se la storia del mondo testimonia che il passato insegna ben poco e che in mutate circostanze e con modalità diverse le tragedie collettive si ripresentano in vari modi nella storia umana – ed è necessaria, quanto mai necessaria, a generazioni vissute negli ultimi decenni che la guerra hanno avuto modo di apprenderla solo da quell’intermediario capace di smaterializzare la realtà che è la televisione.
In un racconto nutrito di biografia l’autrice esplora la sua vita e il suo rapporto con la madre, unica di una famiglia numerosa ad essere sopravvissuta al Shoah, ebrea polacca stabilitasi poi con il marito anch’egli sopravvissuto all’orrore dei campi nazisti a Monaco dove è nata la figlia cresciuta sentendosi estranea al mondo tedesco e alla sua cultura di cui pure padroneggiava la lingua. Dai vent’anni in poi Helena è vissuta in Italia dove si è sposata e la sua condizione è connotata da questa confusione linguistica (padre e madre che comunicano tra loro in polacco, la tata che è tedesca e con cui la bambina parla in tedesco come anche con i compagni di scuola, il marito italiano), in qualche modo questa pluralità di idiomi rende più complessa se mai non lo fosse già di per sé la comunicazione. Sentirsi senza radici o con tante e troppo ampie e profonde radici, in parte strappate dai sussulti della storia, genera nella mente dell’autrice il desiderio di conoscere, di approfondire il senso di un’esperienza che è individuale e collettiva ed ha segnato persone e popoli e la conduce a questo percorso di conoscenza fatto con l’unico sussidio che può garantirci qualche speranza di salvezza, la ragione, che ci dà la forza di vedere dentro di noi o nella mente dei nostri cari con il massimo dell’obiettività che all’uomo è consentita, con sforzo e fatica ma anche con la certezza di aver strappato qualcosa di prezioso alle tenebre.
Marina Torossi Tevini