“Carino ma non di più. Non aspettarti Gran Torino eh! “
“Oddio, niente di che. Non è Million Dollar Baby”
“Mah. Strana storia. Niente a che vedere con Mystic River”
Ecco.
Scarni commenti in croce, recensioni al volo prive di contenuto, lamentele sulla presunta genialità offuscata di Eastwood e paragoni (adesso posso dirlo) davvero improponibili: è tutto quello che sapevo di Hereafter prima di sprofondare nella poltroncina del cinema l’altra sera, pronta a smarrirmi nell’ennesima, maledetta magia.
Perché diciamolo.
Io non avevo dubbi. E se ne avessi avuto anche solo uno i primi, rutilanti minuti lo avrebbero spazzato via. Schiacciato sotto il peso di una scrittura superba, di inquadrature perfette, di un atmosfera sospesa tra la gelida e spietata realtà e un altro luogo mai palese, solo delicatamente accennato ma incredibilmente reale e concreto fatto di luce abbagliante, contorni sfumati e suoni ovattati.
Sospeso.
E’ un film che prende a pugni questo. Che colpisce forte, duro e senza pietà.
I colpi arrivano improvvisi, inaspettati, ripetuti e hanno la forma di una muraglia liquida e argentea che annienta e spezza e uccide, il rumore di uno schianto crudele e profondamente ingiusto, il silenzio di un dono che somiglia terribilmente ad una maledizione. Hanno le sembianze di persone le cui vite, così incredibilmente diverse, si snodano in una romantica e ordinata Parigi tinta dei caldi colori del tramonto, in una San Francisco lattiginosa, umida e nebbiosa, in una Londra caotica e livida e prendono vita in sentimenti tangibili ma mai rivelati, in storie che si intrecciano con garbo e naturalezza, senza inutili e scontati colpi di scena, una donna felice e appagata che perde la sua concretezza e abbraccia il mistero, un uomo che vive una solitudine imposta dalla sua straordinarietà e dalla paura che sempre e comunque le persone straordinarie suscitano in quelle ordinarie, un bambino ingabbiato in una vita difficile, riassunta nei tre secondi dell’inquadratura che si sofferma sui buchi che affliggono le braccia di sua madre, che perde il suo doppio, l’altro sé stesso, ritrovandosi a combattere con il dolore di una mancanza che non accetta e alla quale non si rassegna.
Eastwood ci trascina in un mondo reale ma fatto di ossimori ambulanti, in storie apparentemente straordinarie che però riguardano tutti noi da molto vicino, e lo fa nella sua maniera inconfondibile e raffinata, senza mai alzare la voce, , senza necessità di scene cruente e di dolore urlato, senza ricercare lo stupore ad ogni costo e per questo sbalordendoci con lunghi silenzi densi di parole soffocate, con sguardi assassini che si rivolgono oltre, con sorrisi tristi carichi di consapevolezza, distruggendo(mi)ci con quella buonanotte sussurrata ad un letto vuoto, con quell’acqua assassina sputata via dai polmoni, con quelle buste della spesa lasciate lì, all’occorrenza, con quella solitaria gara di cucina frutto dell’ignoranza e della pochezza d’animo, con quei sorrisi che rivedo sulle labbra di ogni uomo che pensa ostinatamente di dover trascorrere la sua vita in solitudine, con quel “mi manchi, non andare via” bagnato di lacrime, con quella fiduciosa attesa sotto la finestra, anzi più di tutto annientandomi con quella immagine perfetta di un piccolo uomo che aspetta.
Solo che stavolta non è bagnato di pioggia e non aspetta invano, eh Clint?
Tu, che a 80 anni suonati hai deciso di cimentarti in un genere che non ti è mai appartenuto e l’hai fatto con precisione e naturalezza, decidendo non senza scherno di parlare di quella signora che ci cammina accanto vestita di nero e hai fatto di più, l’hai resa la vera, unica protagonista di un film, prendendola per mano, esorcizzandola, rifuggendola forse. L’hai fatto a tuo modo, con autorevolezza, mettendoti in cattedra, senza temerla.
Guardandola negli occhi.
Ponendo delle domande che inevitabilmente rimarranno senza risposta perché nessuno è in grado di sapere cosa accadrà, dove andremo e cosa faremo quando chiuderemo gli occhi per l’ultima volta planando nell’aldilà del titolo ma insegnandoci che, parimenti, nessuno è in grado di sapere quello che accadrà domani, nell’aldiquà, quando apriremo nuovamente gli occhi su un nuovo giorno. E instillando in noi la speranza che, forse, il bello, è proprio questo.
Stavolta hai giocato a scacchi con la Morte.
E hai vinto tu.