Hikikomori è una parola giapponese, coniata dallo psichiatra giapponese Saitō Tamaki e ormai entrata anche nello Zingarelli, che significa “isolarsi”. Gli hikikomori sono persone, di solito adolescenti o giovani adulti, soprattutto maschi primogeniti provenienti da una famiglia di ceto sociale medio-alto in cui entrambi i genitori sono laureati, che scelgono di isolarsi
Lo chiarisco subito: l’hikikomori non deriva da una dipendenza da internet. L’uso della tecnologia può rendere più tollerabile la solitudine e dare la sensazione di essere in contatto col mondo, questo sì. Il bisogno di affiliazione è del resto uno dei bisogni che stanno alla base del comportamento umano.
Secondo Saitō, in Giappone vi sarebbe un milione di persone che ha deciso di vivere in questo modo, cioè un giapponese su 100. Per fortuna con numeri molto più bassi ma che meritano attenzione, l’hikikomori è un fenomeno che sta comparendo anche in Italia: secondo Piotti, un ragazzo su 250 potrebbe diventare un hikikomori.
Hikikomori: isolarsi per sfuggire al conformismo
Perché così tante persone in Giappone hanno deciso di non avere più alcun contatto col mondo, se non ricorrendo a social network, videogiochi di ruolo on line o chat? Secondo Saitō e molti altri studiosi, l’hikikomori è una risposta al modo in cui è organizzata la società giapponese, una risposta dolorosa con cui sottrarsi alle sue richieste e ai suoi valori, con cui smettere di giocare a un gioco per cui non ci si sente adatti o di cui non si condividono strategie e obiettivi.
Innanzitutto, gli hikikomori dicono no a quel conformismo che è uno dei cardini della cultura giapponese.
In una società radicata nel conformismo, gli obiettivi di vita che sono importanti e i modi con cui raggiungerli sono condivisi da tutti e le persone sono spinte ad adeguarvisi; nella società giapponese la pressione ad adattarsi al gruppo, a essere come gli altri, a desiderare le cose che tutti desiderano – avere un rendimento scolastico eccellente, fare l’università, avere un lavoro di prestigio e, se sei uomo, avere una moglie che sta a casa a educare i figli – è fortissima. Non c’è spazio per affermare la propria diversità dagli altri, il conformismo non ammette soggettività, e, al di fuori di tali obiettivi che sono prestabiliti e comuni a tutti, c’è solo il fallimento. Con una quota così alta di conformismo, l’identità è innanzitutto identità sociale, uniformità e fedeltà al gruppo.
E questo vale già quando si è bambini, se è vero che a scuola si può essere vittima di bullismo (in giapponese, ijime) proprio per il semplice fatto di essere dissonanti rispetto alla media, alla “normalità”: se sei troppo timido, troppo grasso o persino più bravo degli altri in uno sport, questa emersione rispetto al gruppo può essere punita con quelle pratiche aggressive e umilianti note anche da noi, in primis distruzione di oggetti personali, violenze fisiche ed esclusione dal gruppo dei pari. E se l’identità è innanzitutto identità sociale, essere fuori da un gruppo significa non esistere. L’ijime è considerato un marchio d’infamia e ammettere di esserne vittima significa dichiararsi dei falliti e rischiare ulteriori violenze. È una ferita talmente grande che spesso la vittima non riesce a tornare a scuola e preferisce starsene a casa. A volte l’isolarsi hikikomori dal mondo comincia così, da questo sentimento di vergogna (haji) che non si riesce a superare. Meglio nascondersi, rendersi invisibili agli occhi degli altri, se gli occhi degli altri si sentono affilati come coltelli, pronti a rimproverare, a far sentire degli incapaci, a prendere in giro. Del resto lo diceva anche Hawthorne: la vergogna isola le persone.
Hikikomori: isolarsi per troppa vergogna
Isolarsi salva, almeno in prima battuta, dalla vergogna, dal disprezzo e dal rifiuto da parte degli altri. Meglio uscire dalla competizione che avvertire la vergogna del non essere all’altezza, l’insicurezza, il timore di sbagliare. Meglio sparire.
Nella seconda parte di questo articolo, alcune considerazioni sul ruolo della famiglia nell’isolarsi hikikomori.
Per approfondire
Ricci. C. (2008). Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione. Franco Angeli
Photo credit: Ambro | royalconstantinesociety
Rosalia Giammetta, psicologa e psicoterapeuta, è responsabile dell’area prevenzione dei comportamenti a rischio in adolescenza per l’associazione PreSaM onlus. Nell’ambito dell’educazione alla salute e della peer education, ha condotto numerose attività di formazione e ha pubblicato il volume L’adolescenza come risorsa. Per saperne di più, visita la sua pagina personale e leggi gli altri articoli.
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