Historias que só existem quando lembradas (Found Memories)

Creato il 26 giugno 2014 da Frankviso
Julia Murat
Brasile, Argentina, Francia, 2011
97 minuti

In un piccolo villaggio "fantasma" sito nella Valle del Paraíba (a nord-est del Brasile), abitato esclusivamente da persone in età avanzata, seguiamo Madalena nelle sue ripetitive gesta quotidiane: impastare il pane per il vecchio negozio di Antonio; percorrere un sentiero ferroviario abbandonato; fare visita alla tomba del defunto marito (sepolto in un cimitero chiuso con dei lucchetti, dove a nessuno è permesso di entrare); partecipare al sermone nella chiesa locale e condividere il pranzo con i compaesani.
Sarà l'improvviso arrivo di Rita, una giovane fotografa in viaggio, a destabilizzare il flusso di questo microcosmo sospeso in un limbo temporale, che sembra solamente attendere la morte... Scattare un'istantanea a lume di candela, o tra i vagoni arruginiti di un treno che ha cessato la sua corsa; catturare l'ultima immagine di una vita, come un ritratto inciso tra le mura decadenti del passato; immortalare i ricordi vissuti di un tempo (s)perduto, dimenticato, facendoli transitare in un'era contemporanea che mai come ora, necessita di nutrirsi con realtà ancestrali, e dal retrogusto magico. E' un cinema che si forma nella memoria, e che ricorre sempre più di frequente, soprattutto nella cinematografia latina: Hamaca Paraguaya (2006); El Cielo Gira (2004). Giusto due esempi, ai quali l'ammaliante opera prima di Julia Murat non può che accostarsi in maniera encomiabile, condividendone a mio avviso quel fascino, che tra l'altro risulta ancor maggiore se visionata come "proiezione di mezzanotte" durante le notti estive.
E' un esordio quasi autobiografico, Historias que só existem quando lembradas, in quanto la video-artista e fotografa brasiliana si è dedicata a lunghi sopralluoghi, perlustrando per diversi mesi le zone più a est, tra il Rio Grande do Norte e il Pernambuco, raccogliendo testimonianze tra quelle popolazioni, un tempo tra le più ricche del Brasile, e che ora vivono in un museo arcaico composto da relitti e memorie, stampate ed impresse ovunque: la chiesa, con le sue epigrafi murali; le foto che Madalena conserva - scatti al monocromo che come in Aita (2010), emanano tutta la loro reminiscenza - e le lettere al defunto marito, che immancabilmente ogni sera scrive, con ossessiva dedizione). Attraverso questo suggestivo viaggio sulla rifondazione della memoria, appare chiaro come il personaggio di Rita, da un lato rappresenti l'alter-ego della regista; osservando quest'ultima all'avanscoperta di luoghi e misteri sepolti (il cimitero, l'ex-ferrovia, la chiesa - ma basterebbe anche solo quel primo esterno notte, quella carrellata sui muri dei casolari illuminati dalla lampada, ad instaurare un'aura arcana), contemplati nella loro silenziosità estatica (la sensazione di ascesi all'interno del campanile, mentre i riflessi del sole mettono in risalto il pulviscolo atmosferico che avvolge la giovane) è facile immaginarne l'operato dell'artista mentre si appresta a fotografare i tre paesani seduti sulla panca di fronte a lei, la stessa, dove Madalena e Antonio si accomodano ogni mattina per degustare quel caffè che ha oramai perso l'aroma di un tempo. E in egual misura, è fondamentale come Rita funga da elemento catartico per Madalena (e forse, per l'intera comunità) con la quale, superata la reticenza iniziale, finisce per consolidare un'umile rapporto di reciproca istruzione (interessante l'ascolto della musica/musiche nella loro evoluzione generazionale: il grammofono / l'iPod). Come la donna educherà la giovane nel "sentire il ritmo del pane, e il suo respiro", allo stesso modo accetterà di farsi finalmente eternare da quest'ultima (un'istantanea pittorica, atta a diffondere tutta l'espressività artistica della regista) al tramontare della sua esistenza, liberandosi dalle catene che la tenevano ancorata a quel tumulo di ricordi, come i lucchetti di quel cancello cimiteriale, dove giornalmente si recava.



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