Hobby, mestieri e ambientazioni nella scrittura. Parliamo di note e glossari

Creato il 17 gennaio 2012 da Autodafe

di Virginia Less

Le storie che invento sono quasi sempre ambientate a mare. I personaggi lo amano, oppure lo temono; molti vanno in barca, preferibilmente a vela, e io racconto, quando mi sembra il caso, cosa avviene quando navigano.
Da regatante della domenica e crocerista mediterranea vado per mare da tanti anni; mi interessa e diverte, ha caratterizzato da sempre la vita familiare e mi fa piacere parlarne. Il mare bisogna conoscerlo e rispettarlo, qualunque sia il mezzo di cui ci serviamo per stare a galla. Sfruttare per muoversi la forza del vento, sembra ad alcuni il sistema più naturale (oltre ai remi, lenti e faticosi) e piacevole; penso che il messaggio meriti di figurare nella narrazione.
Il filone è abbastanza praticato: Iperborea ha pubblicato negli ultimi anni diverse storie ambientate nei mari nordici; per esempio Il cerchio celtico di Björn Larsson, un thriller di successo per gli amanti di sette e misteri, che mescola bizzarri intrighi con faticose navigazioni minuziosamente raccontate. Per quanto mi riguarda, scrivo di vela amatoriale ai nostri giorni. Aggiornata e resa più tecnologica, essa è alla portata di chiunque abbia interesse a praticarla, mentre agli alti livelli non può ormai definirsi tale e richiede super professionisti atleticamente preparati. Le prestazioni degli scafi da competizione, che utilizzano materiali e strumentazione d’avanguardia, sono oggi davvero sbalorditive: Hydroptere, un cat ultra tecnologico, ha toccato i 61 nodi (prima di rovesciarsi), ma anche i monoscafi da regata che attraversano l’Atlantico planano, in certe condizioni, a quasi trenta.
La premessa a beneficio dell’hobby prediletto serve a introdurre alcune perplessità letterarie che mi si presentano e vorrei sottoporre agli autori e lettori di Autodafé. Nei testi che scrivo figurano situazioni nautiche, raccontate secondo me in modo semplificato e comprensibile, ma facendo uso della terminologia specifica, il che può generare qualche difficoltà. Cito alla rinfusa qualcuno dei termini in cui rischiano di imbattersi i miei “dieci lettori”: orzata, terzarolo, poggiare, randa, amantiglio, osteriggio, sentina routier, tangone, bozzello, strallo, fiocco, vang, bugna, pagliolo, sartia, paterazzo, spinnaker.
Un certo numero di vocaboli marinareschi compare in Mal di mare, dove descrivo nel dettaglio un paio navigazioni a vela, e da parte dell’editore non sono stati mossi rilievi sulla comprensibilità del testo. Se ne sono però lamentati alcuni lettori: il primo già nel corso di una presentazione, ad apertura di pagina, e in seguito altri, abbastanza in confidenza da farmelo notare durante gli incontri del gruppo di lettura di cui faccio parte. E insomma, pur dicendo di gradire (meno male) l’ambientazione, hanno deplorato l’assenza di qualche nota esplicativa, che avrebbe evitato di restare spiazzati nel bel mezzo della storia.
Il problema rimane aperto: ho appena terminato un romanzo, velico quanto i racconti (per giunta “arricchito” da qualche digressione filosofica). Vorrei aprire una discussione, ampliando un po’ il tema, per confrontarmi utilmente nel blog con chi probabilmente ha opinioni diverse.
La prima questione, più generica, riguarda la licenza o l’opportunità, per l’autore, di attingere largamente alla propria “competenza” specifica. Anche qui gli esempi abbondano: un gran numero di romanzi convoca il lettore nei tribunali, specie americani, lo fa assistere a operazioni chirurgiche e lezioni universitarie, giocare in borsa, impratichirsi di autopsie o analisi chimiche e via elencando. Non si tratta di digressioni o scorci: l’intera narrazione si svolge all’interno del settore professionale prescelto. Non è possibile, credo, riunirli in una categoria, quella dei romanzi di mestiere (o come chiamarla), poiché appartengono a vari generi, dal sentimentale al giallo, passando per l’avventuroso. Quando sono ben riusciti, cioè i topoi prescelti e la narrazione vanno a liete nozze, le professionalità utilizzate nella scrittura possono costituire un motivo di attrazione. Altrimenti gli autori rimangono avvocati, giudici, biologi, naviganti che non raccontano storie, ma parlano in vario modo delle loro materie ed esperienze, e il lettore se ne accorge.
La seconda questione è specifica e pongo subito la domanda: quando un’opera di narrativa contiene riferimenti disciplinari, usa terminologie tecniche e insomma fa riferimento a competenze che il lettore non è tenuto ad avere, è proponibile corredarla di qualche informazione? I miei lettori chiedevano delle note, ma non mi sembra il caso; hanno una ragion d’essere nei testi di studio, manuali e simili, evocano letture obbligate e spesso sgradite. Salvo che per attribuire la paternità di una citazione o titolo, in un romanzo risulterebbero incongrue e noiose. Nelle pagine che scrivo, il termine randa avrebbe in alto il suo numeretto e a piede si leggerebbe: “vela triangolare inferiormente inferita (fissata) sul boma (vedi) e anteriormente all’albero”. E quando la rinomino, poco oltre: “vedi nota pag. X”. Assurdo.
Sarei invece favorevole a fornire di un glossario, semplice e ridotto, anche i libri di narrativa, se le materie lo richiedono. Viene collocato a fine volume, subito prima dell’indice; il lettore può dare un’occhiata per cercare il vocabolo (privo di evidenze grafiche) che lo lascia in dubbio. Troverà una definizione minimale, e magari approfondirà altrove per suo conto. Se non ne avverte la necessità, è libero di ignorare tranquillamente quelle pagine. Mi sembra però una scortesia obbligarlo a leggermi con accanto un dizionarietto nautico, e temo anche l’abbandono da parte sua.
Il glossario figura in un numero non elevatissimo di romanzi, ma la pratica è tutt’altro che nuova. Aggiungo che personalmente l’avrei apprezzato in alcuni che menzionano molti titoli e autori, oppure luoghi poco noti e anche in certi legal thriller e gialli tecnologici; ricordo con piacere quello, tutto giocato all’interno di un laboratorio zeppo di virus micidiali, che ne era fornito. Quanto ai romanzi marinareschi, sono i più frequentemente corredati di glossari, il che mi legittima a caldeggiarli. Citerò per tutti la fortunata serie (pubblicata in Italia da Longanesi e in edizione economica da Tea) di Patrick O’ Brian, morto nel 2000: i suoi personaggi, il capitano Jack Aubrey e il medico Maturin, navigano per l’intero globo attraverso ben venti volumi – il film Master and Commander è tratto dal primo – tutti forniti di glossario. Ponderoso, perché si parla di navi ottocentesche e la documentazione è molto accurata. Ne ho davanti uno di ben 18 pagine, oltre ai disegni e l’elenco delle attrezzature. Lo trovo ben fatto e mi suggerisce un’altra considerazione: i glossari, utili a chi ignora la materia, possono meritare l’apprezzamento del conoscitore, a tutto vantaggio dell’opera.


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