Regista: Morten Tyldum
Attori: Aksel Hennie, Synnøve Macody Lund,
Nikolaj Coster-Waldau
Paese: Norvegia
Roger Brown (Aksel Hennie) è un uomo d'affari, un cacciatore di teste, che sembra avere tutto. Una casa enorme, una moglie bellissima, un lavoro di prestigio. Il suo stile di vita, però, tende ad andare un po' oltre le sue reali possibilità ed è per questo che decide di arrotondare con il furto e la vendita di opere d'arte. Tutto va per il verso giusto, la rete da lui messa in piedi funziona, fino però al momento in cui compare Clas Greve (Nikolaj Coster-Waldau).
Sembra il classico soggetto di un film di genere che guarda al thriller tirato e pieno di suspance. Ed infatti è esattamente così. Fin da subito la voce narrante del protagonista introduce con un tono autocompiaciuto invero già troppo familiare il suo personaggio. Un'apertura che di certo non fa ben sperare in un prosieguo solido e granitico, ma al massimo in una pellicola-baraccone che punta su ritmo, colpi di scena e una certa fondamentale dose di autoironia. Le intenzioni del regista, tuttavia, sono altre e “Headhunters” si prenderà maledettamente sul serio, come del resto si evince dalle sue stesse dichiarazioni:
«Con “Hodejegerne” vorrei al tempo stesso intrattenere e provocare delle riflessioni. È un film con una storia straordinaria da raccontare, ma non ha paura di farti ridere e di lasciarti col fiato sospeso. È un film di genere che ha l’ambizione di non essere dimenticato non appena hai finito di mangiare i popcorn e sei uscito dal cinema». [Morten Tyldum]
È bene mettere subito in chiaro che questo terzo lavoro di Tyldum più che non aver paura di far ridere, non riesce a farlo, tranne forse in alcune brevi parentesi iniziali, quando guarda caso non si è ancora entrati nel vivo. Ed è bene mettere subito in chiaro anche che le velleità di spessore contribuiranno in maniera disastrosa alla non riuscita della pellicola, dato che il regista norvegese cercherà in tutti i modi di rendere credibile e sentita una sceneggiatura da un certo punto in poi assolutamente improponibile.Che l'intenzione sia quella di fare sul serio lo si capisce appena dopo le prime sequenze, quando l'atmosfera smette di colpo di essere leggera con l'entrata in scena di Greve. A questa infatti seguiranno una serie di scambi col protagonista che dovrebbero incuriosire e accattivarsi lo spettatore, ma che appaiono in realtà banali e strutturati secondo mille altri scambi visti in mille altre pellicole simili per genere e costruzione. Segue un'inquadratura sulla schiena piena di cicatrici di Greve ed ecco servito il cattivo di turno, interpretato da uno dei pochi aspetti positivi di “Headhunters”: Coster-Waldau, reso famoso dal Jaime Lannester di “Games of Thrones”.
Se fino a questo punto si intravede della banalità, mascherata da una curiosità inevitabile, generalmente scatenata anche da un thriller meno riuscito, quanto accade in seguito è il classico tentativo di tenere incollati alla poltrona attraverso un uso spropositato di colpi di scena. E non sarebbe, volendo, neanche questo il problema principale, perché fintanto che quei colpi di scena, pur nell'esagerazione filmica, risultano credibili, lasciarsi andare al baraccone è comunque un'opzione assai gradevole, anzi. Se, però, quei colpi di scena, così come in generale la costruzione della storia, iniziano a mostrarsi eccessivi, allora il tutto è destinato inesorabilmente a risolversi nella classica spazzatura cinematografica che punta non semplicemente a spegnere il cervello ma ad offenderlo in maniera spudorata. Ovviamente è quanto accade con “Headhunters” che, invero, nella prima parte della fuga non fa gridare allo scandalo, tanto che le soluzioni proposte possono apparire, pur sempre nell'ottica cinematografica di cui sopra, credibili. Inoltre la fotografia fredda e la regia non frenetica che una pellicola di questo tipo comunque avrebbe giustificato, fanno sperare se non in una ripresa almeno in un thriller godibile. E invece no. Tutta l'esagerazione trattenuta in precedenza esplode da un momento all'altro in una sequenza davvero pessima, che è poi anche l'inizio della corsa alla banalità, durante la quale viene svelato il grande disegno, con tanto di complotto, fino alla resa dei conti.
Al termine, come ormai deve necessariamente fare ogni thriller idiota che si rispetti, la voce narrante spiega nel dettaglio cosa è stato architettato per il capitolo conclusivo del racconto, sempre con una dose massiccia di autocompiacimento. Non che sia una soluzione negativa in termini assoluti, ma essendo eufemisticamente abusata, nel momento in cui non ha alle spalle una pellicola per un motivo o per l'altro degna, diviene quanto meno fastidiosa. Se il regista sperava che il suo film “non venisse dimenticato dopo aver mangiato i popcorn ed essere usciti dal cinema” ha fallito miseramente. E se verrà ricordato per qualche giorno successivo alla visione, sarà probabilmente a causa dei soldi spesi per la stessa.
Resta a questo questo da capire solamente una cosa, ossia come sia stato possibile che abbia vinto il primo premio al Courmayeur Noir Festival, specie se si considerare che tra le altre pellicole in concorso c'era il ben più interessante “Martha Marcy May Marlene”. Queste le motivazioni: “Il film ci ha soddisfatto dall'inizio alla fine e da ogni punto di vista; lo abbiamo trovato avvincente, divertente, pieno di suspence. Abbiamo pensato che rappresentasse al meglio il genere noir e siamo felici di assegnargli il primo premio”. Con il genere noir non c'entra nulla, non è in grado di divertire ed è pieno di suspance solo per gente che non vede un film dal 1920. Della giuria faceva parte Carolina Crescentini.