Holy Motors

Creato il 05 giugno 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Anno: 2012

Distribuzione: Movies Inspired

Durata: 115′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Francia

Regia: Leos Carax

Uscita nelle sale: 06 giugno 2013

Il cinema come macchina autoriale-spettatoriale

Il pubblico mummificato di un cinema occupa la prima inquadratura dell’ultimo film di Leos Carax e mi torna immediatamente in mente La Société du spectacle (1973) di Guy Debord; infatti, in un certo senso, questo Holy  Motors pare il proseguimento della riflessione sull’evaporazione dello spettatore, solo che l’autore, invece di condannarci a qualche minuto di schermo nero (che ancora ci meriteremmo), sviluppa una messa in scena in cui a farla da padrone è un processo auto-poietico continuato a cui è sottoposto il corpo glorioso di Denis Lavant: una riformulazione incessante del concetto d’identità che mina alle fondamenta la soggettività, recuperando l’azione, un’azione che non smette di accadere, un gesto ripetuto più volte e che, pertanto, si rivela costantemente a vuoto.

Leos Carax in persona dà inizio al film; un dito della sua mano si meccanizza, divenendo accessorio macchinico attraverso cui incorporarsi al dispositivo cinema. Solo che a mancare in questo ‘motore sacro’ è il versante della fruizione (lo spettatore). E a Carax manca la speranza, non crede più, cioè, alla possibilità di uno sguardo che sappia registrare la bellezza. Denis Lavant, che si produce magnificamente in diversi ruoli, potrebbe costituire il prototipo ideale di attore per un teatro post-edipico, che fa dell’improvvisazione e della deterritorializzazione i suoi punti di forza. Particolarmente significativa è la sequenza in cui lo vediamo, in veste di assassino, alle prese con il suo doppio: assistiamo ad un’inversione dei ruoli (uccisore/ucciso) in cui si mostra una soggettività posta ai limiti, sul ‘bordo’, come se la differenza tra ‘il medesimo’ e ‘l’altro’ fosse dissolta , aprendo a una (gioiosa?) indiscernibilità. Ma se Carax, da un lato, dà inizio al movimento del ‘motore’, dall’altro lo chiude, non portando a compimento la torsione necessaria a concluderne la traiettoria. Detto in altri termini, pone una questione decisiva: perché un autore crea un’opera, e, soprattutto, per chi? La domanda, in un certo senso mostrata nel suo farsi, non riesce a giungere, però, a una risposta, o a una soluzione soddisfacente. La virtualità delle tecnologie (dall’utilizzo delle camere digitali fino alla grande memoria globale della rete) viene percepita come strumento di azzeramento dell’azione e dello sguardo che la coglie, e, allora, tutto il senso dell’operazione si riduce a un’invocazione nostalgica del passato – analogico e simbolico (Kylie Minouge canta Who were we). La riproduzione incessante dell’azione (Oscar/Lavant e i suoi dieci personaggi) dovrebbe produrre un effetto, cioè la sospensione del tragico, lo sprofondamento del visibile nell’invisibile, il raggiungimento dell’atto.  Altrimenti si ricade nella rappresentazione, perché lo sguardo che ancora riesce a vedere è quello che capta l’eccedenza  che sfonda l’ordine simbolico e, contemporaneamente, lo ripristina.

Certo, alcune sequenze sono particolarmente riuscite: il “Signor Merda” che trancia con un morso due dita della segretaria del fotografo che si ostina a ripetere l’odioso gesto delle virgolette; la sua ‘deposizione’ (un Cristo erotomane e onnivoro) tra le braccia di ‘Maria’/Eva Mendes; e ancora: la danza erotica e dinoccolata delle cyber-creature, l’assassino/assassinato, il prezioso cameo di Michel Piccoli/”L’uomo dalla macchia di vino”; tutta questa sarabanda di personaggi e situazioni, il cui scopo è quello di affermare la bellezza del gesto (a vuoto), seduce e invita a una riflessione che parte da ottime premesse ma si arena nella nostalgia del visibile. I ‘motori sacri’, alla fine del film, ritornano nel garage-cimitero, consapevoli del fatto che, prima o poi, verranno sostituiti. Indubbiamente Carax coglie il lato tragicomico del capitalismo, difatti siamo esseri post-moderni proprio perché capiamo che tutti i prodotti di consumo, così esteticamente attraenti, faranno la fine dei rifiuti. Si perde il senso del tragico e si percepisce il progresso come ridicolo. Però, al tempo stesso, non coglie le numerose possibilità che un processo auto-poietico permanente libera: una soggettività completamente nuova, ancora tutta da praticare, che se da un lato appare come il risultato delle dinamiche capitalistiche, dall’altro (paradossalmente?) costituisce un portentoso strumento di resistenza e superamento del capitalismo stesso. È su un piano d’immanenza e non più dialettico che si gioca lo scontro tra potere e potenza,  tra il concetto di gioia (spinoziano) e quello di godimento, tra rappresentazione e ciò che la eccede.

Intendiamoci: Holy motors è sicuramente uno dei migliori film dell’anno (anche se è stato presentato alla scorsa edizione del Festival di Cannes), solo dispiace che premesse così esatte e decisive non siano seguite da conclusioni all’altezza.

Luca Biscontini


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