Hotel Transylvania (2012) di Genndy Tartakovsky (produttore della serie tv di Dexter), per quanto mi riguarda, è l'ennesimo film sotto diversi aspetti e, mi pare, delude praticamente su tutti. Intanto sulle scelte dell'animazione: il 3D, per quanto eccellente, vi risulta un gadget inutile, che solo in pochissimi casi conferisce spessore al tessuto narrativo e, d'altra parte, quel paio di scene non bastano a giustificare la spesa ulteriore. Inoltre, trovo discutibile la scelta di optare per un incarnato dei personaggi (soprattutto di Dracula) troppo sintetico. Non basta lo stile, né l'intento di palesare l'irrealtà della vicenda e dei suoi eroi per farmi apprezzare simili bagliori di carrozzeria automobilistica sulle guance, contro la naturale levigatezza viva e opaca della pelle umana. A ciò si affianca un corredo convenzionalissimo di mostri, visti e rivisti altrove, in un citazionismo di nomi, situazioni e forme che, alla lunga, trovo insopportabile (anche nella parodia dell'oltraggioso ipervampirismo al cinema e in tv). Rispetto, per esempio, al corteo di fantasmi che attraversa La città incantata di Hayao Miyazaki, gli avventori dell'Hotel Transylvania sembrano il frutto di kit di montaggio, perfino in Mosters & co. e in Robots c'è più fantasia. Se anche la sceneggiatura (a più mani) regala loro (e agli spettatori) sketch simpatici e a volte proprio esilaranti, queste creature dell'orrore sono insieme troppo chiassose e troppo anonime per superare la dimensione della tappezzeria o assurgere a un qualche ruolo di coprotagonismo.
Se tutto questo può rientrare nelle dinamiche di un genere che si trascina stanco di titolo in titolo, va sottolineato almeno un altro aspetto per lo meno ambiguo. In Hotel Transylvania si ripropone per l'ennesima volta l'incontro tra una comunità blindata e diffidente e un supposto nemico che vi si infiltra. Qui l'invasore non è il vissuto John Book (Harrison Ford) de Il testimone di Peter Weir: siamo semmai di fronte a un "semplice", anche se non proprio di evangelica memoria. Non è meno convenzionale e ovvio, infatti, lo spiffero di "normalità" che invade all'improvviso questo castello dove albergano le forme più inverosimili e ridicole. Dal momento che normale viene definita questa subcultura urbana, poverissima nel lessico e nelle aspirazioni esistenziali, non stupisce affatto che mostri e uomini possano riconoscersi e fondere le comunità a cui appartengono. Ma se questo è un tentativo per sponsorizzare l'apertura del mondo alla diversità dell'altro, è ben misero cimento. Il mondo non è affatto pronto, nel XXI secolo, a riconoscere e accettare l'alterità, nella sua irriducibile dimensione esistenziale e sociale, come invece la semplicioneria di queste fiabe un po' ipocrite vuol propagandare: non si ascoltano neanche le proteste di verità da parte di chi non si sente rappresentato a dovere nell'immaginario collettivo. Se anche questo fosse un tentativo didattico, non si capisce per quale ragione si debba prima etichettare una comunità come mostruosa e poi includerla nella propria, da una parte; dall'altra, e soprattutto, bisogna anche vedere per quale ragione un giovane "normale" si debba identificare in un rapper da strapazzo tra mille altri identici, conformista e acritico, aperto sì (e anche sostanzialmente positivo), ma "moderno" solo nel rifiuto intrinseco delle differenze altrui.