“Hugo Cabret” di Martin Scorsese si apre con un'inquadratura di ingranaggi che si trasformano in Parigi vista dall'alto, con le sue strade a raggiera. E' giusto: perché l'ingranaggio col suo gioco di rotelle è l'immagine generatrice del film, una metafora forte, declinata sotto una ricchezza quasi inverosimile di aspetti. In primo luogo, essa evoca tanto l'orologio e il tempo, sovrano impietoso di questo film, quanto il proiettore; il film poi rinnova un'antichissima complicità (nata già nel 1895!) tra il cinema e il treno, tra il proiettore e la locomotiva. In secondo luogo, il gioco degli ingranaggi è evidente metafora del meccanismo narrativo; né è difficile accorgersi che il plot di questa commedia avventurosa - tutta casualità, coincidenze, attimi colti al volo e miracoli - funziona precisamente a orologeria. Sul piano morale, il film paragona esplicitamente il mondo a un grande ingranaggio nel quale tutti hanno un posto e un ruolo (non esistono rotelle di scarto). Last but not least, conviene richiamare alla mente un passaggio, quando davanti al misterioso automa (dal volto vagamente langhiano) i nostri giovani eroi si dicono che per farlo funzionare bisogna mettere a posto gli ingranaggi del torace, dove noi esseri umani abbiamo il cuore (non è poi casuale che la chiavetta per metterlo in moto abbia un'impugnatura a forma di cuore). Morale: è il cuore che deve rimettersi in moto.
Siamo a Parigi nei tardi anni '20. Il giovanissimo ladruncolo Hugo Cabret (Asa Butterfield) è senza famiglia e vive come un topo nascosto nei giganteschi meccanismi che regolano gli orologi della stazione di Montparnasse. La sua strada incrocia quella del vecchio e disperato Georges Méliès, ormai l'ombra di se stesso, che per vivere è costretto a mandare avanti un negozietto di giocattoli alla stazione, e nasconde amaramente il suo passato di mago del cinema. Non svelo niente se aggiungo che il compito di Hugo nel film sarà di riportare Méliès alla pace con se stesso e di contribuire alla sua riscoperta. Méliès (nel ruolo del quale Scorsese offre a Ben Kingsley l'interpretazione della sua vita) ha distrutto per disperazione i suoi oggetti di scena e i suoi film e non vuole più sentir parlare del cinema o men che mai essere riconosciuto come colui che è stato. E' un personaggio autodistruttivo come tante figure scorsesiane: sappiamo bene come il cinema di Scorsese sia un torneo fra la disperazione, la speranza e la Grazia.
Nota in margine: la figura secondaria del buffo villain Gustav, l'ispettore mutilato in guerra (Sacha Baron Cohen), realizza sullo sfondo un altro di quei personaggi autodistruttivi, e in questo funziona armonicamente da rispecchiamento di Méliès in chiave minore. Non per nulla il finale porta una pacificazione anche per lui, e sempre grazie alla magia degli ingranaggi.
La rovina di Méliès è stata la prima guerra mondiale, che ha rappresentato per la Francia e l'Europa la perdita di quell'innocenza che consentiva di vedere e amare i suoi film. Ecco qui un altro tema classico di Scorsese, spesso connesso proprio alla guerra (cfr. per fare un solo esempio il riferimento alla guerra civile americana - la perdita dell'innocenza per l'intera nazione - sotteso al recente “Shutter Island”). Quello che è irresistibile nel cinema scorsesiano è la fittezza e la coerenza della tessitura: le sue tematiche, ricche e variate ma ritornanti, si ritrovano in ogni suo film.
Nonostante la sua aria indurita, anche Hugo Cabret, il senza famiglia, è una figura della disperazione, fino a quando “riparando il cuore” di Méliès otterrà un'adozione ideale. Si invera quindi per lui ancora un altro tema scorsesiano, quello della ricerca del proprio destino all'interno di un environment sociale rigido e avverso. Forse con qualche ridondanza nella prima parte, Scorsese traccia come al solito il quadro storico e antropologico di un'epoca: qui però declinato in forma di commedia, per cui i “tipi” che frequentano la sua Montparnasse sono quelli che troveremmo in un film di René Clair. Va anche segnalato il complesso di spinte e suggestioni relative alla letteratura, che restano sullo sfondo affidati al personaggio di Isabelle (Chloë Moretz) ma danno calore al film creando una figuretta amabile e vivace (e consentendo un'apparizione del grande Christopher Lee, monumento vivente del cinema, in veste di benevolo libraio).
In “Hugo Cabret” Scorsese celebra il cinema, “l'invenzione del sogno”. Dei suoi molti volti che si interfacciano - l'antropologo (“Mean Streets”, “Quei bravi ragazzi”, “L'età dell'innocenza”, “Casinò”), lo psicologo (“Taxi Driver”, “Toro scatenato”, “Re per una notte”), il trickster (“Fuori orario”), il filosofo (“L'ultima tentazione di Cristo”, “Shutter Island”), il mistico (“Al di là della vita”), il poeta (“New York, New York”, “Kundun”), il bardo (“Gangs of New York”) - quello che qui emerge è il cinefilo, appassionato divulgatore e sostenitore del recupero dei vecchi film. “Hugo Cabret” è un caldo omaggio non solo a Méliès e alla sua fantasia purissima ma al cinema muto in generale, esaltato in una serie di citazioni che si aprono con Harold Lloyd in “Preferisco l'ascensore” (poi materializzata in una scena di pericolo del protagonista) e passano per il treno dei fratelli Lumière (anche quello si materializza nella storia) per culminare naturalmente con Méliès e il suo “Voyage dans la Lune”. In un flashback affascinante vediamo un film di Méliès mentre viene girato. Anche questa è magia dei sogni: Scorsese inverte il tempo attraverso la finzione cinematografica. Ed è splendido come l'incantato flashback della visita di un bambino allo studio Méliès degli anni d'oro si colori di tinte brillanti e gioiose, opposte al resto del film: i colori luminosi della memoria.
Quasi tutti gli anni alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone abbiamo la fortuna e la gioia di vedere qualche nuovo Méliès riscoperto, salvato e restaurato. In futuro, quando accadrà, ogni volta ci ricorderemo di “Hugo Cabret”.
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