Sul piano dei contenuti, è vero, l'incipit può apparire melenso, di un dickensiano anacronismo. D'altra parte, si fa presto a capire che la morte del padre e l'affidamento di Hugo Cabret al pessimo zio Claude sono solo lo sfondo, la scintilla che serve a mettere in moto l'azione. Hugo Cabret ha, della fiaba, una certa ricchezza simbolica dovuta a un'oculatissima economia delle risorse: un'economia, si badi, che non è mai risparmio (come oggi saremmo portati a pensare) e invece si basa sulla pertinenza semantica e sulla ricorsività melodica e armonica, in molte sequenze geniale, delle figure-chiave. Tuttavia, Hugo Cabret di Martin Scorsese è anche più di una fiaba, perché non mira tanto a raccontare una storia con morale, quanto piuttosto a operare attraverso il suo stesso linguaggio - il cinema - che diventa strumento demiurgico e insieme interpretativo della realtà.
C'è un elemento, in questo film, che salda le sue diverse anime e consente di accedere allo scrigno fantastico di Martin Scorsese, spiegando quanto ho detto su: si tratta di un automa (tema, è vero, evergreen che di recente ha affascinato anche Giuseppe Tornatore nel suo La migliore offerta). Questa creatura meccanica, il cui scopo non è chiaro neanche a Hugo, deve essere completata, ma il ragazzo non ha i soldi per portare a termine il suo lavoro, così rubacchia in un negozio di giocattoli della stazione. Un giorno, però, viene scoperto dal negoziante e, come spesso accade quando tutto sembra finito, ecco che invece la sua missione decolla e nuove persone entrano nella sua vita. Ma quel che è più importante è che un vecchissimo film visto molto tempo prima dal padre (il celeberrimo Viaggio nella luna di Méliès) si fa chiave risolutrice dell'intera vicenda del figlio. Non appena il ragazzo trova la chiave per far partire l'automa, infatti, ecco che si capisce come ben altro sia il motore della storia.
Treni, stazioni, persone, tutto si muove in Hugo Cabret, tutto ha un suo pulsare segreto, una sua meccanica che non spiega e nondimeno prova a interpretare la realtà. Tutto si muove e tutto si inceppa, tutto si ripara: Hugo si convince di poter mettere in ordine la sua vita con qualche chiave, non perché si limiti a una visione superficiale e meccanicistica dell'esistente, bensì perché eredita una missione dal padre e questa missione è l'ultimo legame con il mondo degli affetti che ormai sembra aver perso. In definitiva, se è vero che come un carillon, un automa è un oggetto che si muove, l'uomo non è un automa, ma da quest'ultima creatura misteriosa il ragazzo impara moltissimo sugli uomini. La meccanica dell'orologiaio, lungi dall'essere ricordo di un tardivo deismo, è il segno diretto dell'industrioso, delicato e sensibilissimo operare dell'uomo sulla sua vita. L'uomo, anzi, è proprio questo suo intervento, come il libraio misterioso che sa quali libri donare e a chi: lui sì, ha uno scopo. E lo conosce.
Il meccanismo qui non è, infatti, la prevedibilità di una conseguenza automatica: come si sarà capito, è la sottotrama, il correlativo oggettivo dell'impegno esistenziale. C'è più spazio per il trascendente in Hugo Cabret che in mille credo, c'è più speranza nelle sue fughe surreali che in una processione. Ma soprattutto c'è un'apertura profonda alla vita dell'altro, alle sue meraviglie presenti, passate e future. E c'è un'epifania a tratti asfittica e a tratti grottesca, che non smette per questo di essere, per l'appunto, una rivelazione: la guardia ferroviaria che "si inceppa" (Sasha Baron Cohen) con la dolcissima fioraia d'altri tempi (Emily Mortimer), il "signor Georges" (Christopher Lee) e la moglie (Helen McCrory) con la giovane Isabelle (Chloë Grace Moretz), forse erede di Katherine Morland, sono tutti i modi in cui il mondo si manifesta a Hugo Cabret (Asa Butterfield) e lo riporta al cuore della sua ricerca e del suo affetto. Mi riferisco a quel padre (Jude Law) che gli lascia il cognome, come se ciò potesse alleviare la sua solitudine, e un futuro tutto da costruire, da reinventare.